1981. Un ex attore di Hollywood sta per inauguare la sua presidenza agli Stati Uniti d’America con una frase diventata un manifesto: «In this present crisis, government is not the solution to our problem; government is the problem». Da lì in poi gli 80’s, il mito di Wall Street, Milton Friedman, il culto dello Stato Minimo, il crescere esponenziale del ruolo della finanza e quella che i media chiamano, con un po’ di faciloneria, l’ideologia neoliberista. Ma il 1981 è anche l’anno in cui Bernie Sanders diventa sindaco di Burlington, nel Vermont. Altra storia, altra cultura politica. Gordon Paquette, candidato democratico dato con certezza come vincente, viene sconfitto. Sanders corre da indipendente.Verrà rieletto altre tre volte aumentando di volta in volta il bacino di voti, battendo sia Democratici che Repubblicani. Da una parte, il simbolo del conservatorismo repubblicano; dall’altra un quarantenne che viene dai movimenti per i diritti civili di Luther King e che si definisce “socialista democratico”. Sanders mette tasse su hotel e ristoranti; poi la battaglia contro l’imprenditore edile Tony Pomerlau che vuole convertire il lungomare in un’area dedicata a condomini di lusso, hotel e uffici. Il lungomare diventerà, grazie a Sanders, una zona di parchi, percorsi ciclistici, alloggi a prezzi abbordabili, spiagge e altri spazi pubblici. Eppure gli affari a Burlington vanno bene. Non “sfascia i conti” né “fa scappare gli investitori”. Nel 1987 Sanders viene eletto da U.S. News tra i migliori sindaci statunitensi, e Burlington viene nominata tra le migliori città americane per vivibilità. La sua politica non è incentrata tanto sulla redistribuzione della ricchezza in chiave socialista, quanto nell’utilizzo dei soldi ricavati dalla tassazione progressiva per l’efficenza, l’accessibilità e la diffusione dei servizi pubblici.
Nonostante oggi, a 74 anni, sia il principale competitor di Hilary Clinton alle primarie dem, Sanders è stato spesso trascurato dai media, se non ostracizzato. Gli avversari lo descrivono come un populista o un’estremista di sinistra, facendo leva su quell’aggettivo – socialista – rivendicato da Sanders stesso. E in area dem è stato descritto come un outsider.
Cerchiamo di capire. Tra le caratteristiche essenziali di un leader populista vi è la semplificazione di dinamiche complesse, il più delle volte economiche. Il leader populista va a minare quella funzione di mediazione tra classe politica e popolo, al quale sono riconosciute naturaliter virtù morali, politiche e amministrative: il Popolo (con la maiuscola) sa più e meglio dei politici e dei tecnici. Egli ne è portavoce diretto. Ma, soprattutto, il populista spesso non ha mai avuto incarichi di governo Non ha risultati politici pregressi da poter far apprezzare; spesso dalla sua ha l’esibizione di successi nell’ambito privato-imprenditoriale. Il discrimine è tra lui (parte del popolo laborioso) e una fantomatica casta. Il suo discorso politico non va oltre la critica distruttiva di tutto ciò che esula dal quel discorso politico stesso e si ferma alle dichiarazioni di intenti. Eppure Sanders è un politico di lungo corso, abile conoscitore delle leve locali di governo e abituato dalla durezza dell’agone politico ad un pragmatismo di fondo (per altro tipicamente americano) che non consente di cedere a visioni idealizzanti della politica e di ciò che “socialismo” dovrebbe significare in America. Sanders ha attraversato la sua carriera politica con una certa dose persino di realismo, andando a stringere alleanze e cercando il supporto del mondo del business. Nel 1983, con l’appoggio di Repubblicani e uomini di affari locali, creò il Community and Economic Development Office (CEDO) per dare concretezza alla sua visione incentrata su piccole imprese locali, alloggi a prezzi accessibili e, in generale, nel coinvolgimento comunitario nella creazione di posti di lavoro. Con il tempo, Sanders ha saputo guadagnare la fiducia anche degli uomini d’affari che, sulle prime, lo avevano guardato con sospetto. A cominciare da quel Pomerlau con cui si era scontrato nella sua prima campagna elettorale. Un Pomerlau che, col tempo, nonostante il suo credo repubblicano, è arrivato a votare Sanders tre volte, contribuendo alla sua rielezione a sindaco di Burlington.
Molte delle sue politiche non sono state cambiate dopo le successive elezioni amministrative. Ma le accuse e i sospetti su questo anziano socialista oggi sono gli stessi di quando si presentò nel 1981.
A fare chiarezza sul suo modello di capitalismo – che lui contrappone ad un dannoso capitalismo corporativo che da alcune decadi sta trasformando il volto americano – è intervenuto Sanders stesso la scorsa settimana, in un intervento alla Georgetown University che Salon.com ha definito il discorso più potente della sua campagna elettorale. Il senatore del Vermont ha inscritto il suo socialismo democratico nel cuore della tradizione americana. Una storia che ha il suo perno nella filosofia politica di F. D. Roosevelt e nel suo scontro con alcuni dogmi del libero mercato, pur restando in un’ottica liberale. Dal salario minimo alla settimana lavorativa di 40 ore, dalla contrattazione collettiva ai sussidi di disoccupazione e alla regolamentazione delle banche (si pensi al Glass Steagal act abolito nel 1999 da Bill Clinton). Tutti punti che furono descritti come socialisti e incompatibili con l’economia di mercato su cui era incentrata l’essenza americana, ma che andarono a fondare la classe media americana post-depressione. “True freedom does not occur without economic security”, è il suo motto che riecheggia il “Necessitous men are not free men” di Roosevelt. La visione di Sanders è fortemente ancorata all’individualismo americano, ma con una distinzione che ricorda il dibattito nostrano tra liberali e falsi liberali caro all’ambiente culturale del Partito d’Azione. Un parallelo che permette più di qualche assonanza con il pensiero liberalsocialista che va da Gobetti a Bobbio passando per quel momento fondamentale che è il manifesto del liberalsocialismo del 1940 di Aldo Capitini e Guido Calogero. Proprio quest’ultimo – che non a caso era fortemente affascinato dalla storia del Partito Democratico americano – approfondì il tema dell’inscindibilità e la reciprocità tra libertà politica e libertà economica, della giustizia sociale come uguale possibilità, uguale “chance” di vita su cui basare il libero mercato. Ne Le regole della democrazia e le ragioni del socialismo (1968), scriveva:
“Come è un falso liberale colui che, sapendo che ogni ragazzo è giuridicamente libero di andare a scuola, crede che tutti i ragazzi siano effettivamente liberi di andarci e non si preoccupa di sapere se hanno i quattrini per farlo, così è un falso liberale colui che si preoccupa soltanto del fatto che tutti i cittadini abbiano pari diritto di voto, e non anche del fatto che abbiano pari possibilità di formarsi una cultura, di crearsi delle opinioni, […]. Chi, insomma dice che vuol difendere in primo luogo la libertà politica, perché solo questa potrà creare poi la giustizia sociale, e non scorge che c’è anche una giustizia sociale che è condizione essenziale della stessa libertà politica, non ha il diritto di dire che difende il valore morale della libertà di fronte al valore meramente economico della giustizia, perché in realtà non difende che una libertà dimezzata, cioè una morale a metà.”.
E il binomio giustizia-libertà su cui batte Sanders è indirizzato nello specifico ad una middle-class che da anni assiste alla sua erosione, alla caduta verso lo stato di necessità. La narrazione di Sanders sta cercando di smontare una certa retorica liberal nata con Obama. Una retorica che parla della rinascita della classe media; eppure oggi gli U.S.A. sono un paese in cui il 35% dei giovani è disoccupato (la disoccupazione reale è all’11,10% secondo fonte Trading Economics) o sotto-occupato e l’assistenza sanitaria è fuori dalla portata di milioni di americani. Per questo Sanders ha rigettato al mittente le accuse in area dem di voler smantellare l’Obamacare. Il suo intento è invece quello di estenderla modificando la struttura stessa della riforma. L’idea è quella di creare un servizio sanitario single payer: una cassa unica finanziata dai prelievi fiscali sul modello Canades ed Europeo che va ad eliminare tutte le forme di assicurazioni private e federali (tra cui rientrano Medicare e Medicaid). Nella politica di Sanders non c’è nessuna pulsione statale al governo della produzione, ma la ricerca del rawlsiano uguale punto di partenza: l’indipendenza economica come indispensabile all’esercizione della cittadinanza.
In queste ultime settimane, uno dei punti di scontro con Hilary Clinton – che fino a poco tempo fa aveva scelto di ignorare Sanders in campagna elettorale – ha riguardato il salario minimo federale, che in America è di 7,25 dollari l’ora (cifra che può essere più bassa se i lavoratori ricevono mance; in questi casi può scendere fino a 2,50 dollari l’ora). A partire da quest’anno circa 29 Stati hanno deciso di alzarlo al di sopra del minimo federale, puntando ai 15 dollari. Donald Trump, rincorrendo il trend repubblicano, ha affermato: “Non possiamo aumentare il salario minimo se dobbiamo competere con il resto del mondo”. Ad ora, Hilary Clinton, pur parlando di un minimo sufficiente di 12 dollari, ha abbracciato le argomentazioni con cui i repubblicani si oppongono da sempre a queste politiche: un aumento significativo del salario minimo, ad esempio a 10 dollari, causerebbe la perdita di circa mezzo milione di posti di lavoro. Questo è quanto affermato da uno studio del Congretional Budget Office, agenzia non partisan del governo. Ma, a livello di dati empirici, ci sono alcune considerazioni da fare: l’eventuale perdita di posti di lavoro riguarda posizioni lavorative di bassissimo livello, non sufficienti ad oltrepassare la soglia di povertà stabilita. Inoltre, nelle località dove – non oltre i 10 dollari l’ora – il salario è stato sperimentalmente aumentato, non si sono verificate significative perdite di posti di lavoro. Tra queste, persino alcuni Stati con amministrazione repubblicane come il Nebraska, il South Dakota, l’Alaska e l’Arkansas.
Seppur gli analisti escludano una sua concreta possibilità di vittoria alle primarie, da qualche tempo il successo di Sanders comincia a suscitare interrogativi, a cominciare da ambienti moderati come il Washington Post. Sanders è riuscito a mobilitare una base impressionante dell’elettorato democratico, raccogliendo il maggior numero di donatori singoli e rifiutando i cosiddetti Big Donors provenienti da multinazionali e grandi attività di lobbying. Una mobilitazione maggiore persino delle prime campagne di Obama, e superiore agli attuali risultati della ex first lady. Parliamo di quasi 30000 persone a Portland in agosto, contro le 5500 della Clinton alla sua formale scesa in campo di giugno a New York. Piuttosto che un outsider democratico, Sanders sembrerebbe puntare a raccogliere il vuoto e la delusione lasciati da Obama, a mettere insieme i brandelli di quel Sogno Americano che dal Vietnam a oggi è man mano imploso nell’anima stessa degli Stati Uniti.