È apparso sul Corriere della Sera un importante contributo di Giovanni Valotti, docente della Bocconi, sul tema della dirigenza pubblica italiana (“La riforma necessaria per migliorare la dirigenza pubblica”, Corsera del 1 marzo): il tema, del tutto condivisibile, è quello di una migliore selezione della dirigenza come leva per rendere più competitivo il nostro Paese. Valotti ha certamente ragione su un punto fondamentale: il concorso pubblico, se organizzato secondo modalità standard (due prove scritte ed un orale, magari ripetitive di materie ampiamente digerite nei corsi universitari e post laurea) è uno strumento inidoneo a reclutare dei bravi dirigenti. Se a questo aggiungiamo l’assoluta prevalenza della cultura amministrativo-contabile (pure fondamentale) rispetto a quella manageriale, siamo al disastro. Aggiungo un altro elemento: il reclutamento “spezzatino” della dirigenza ha contributo alla debolezza del corpo dirigenziale italiano. A prendere in considerazione il periodo che va dal 1993 ad oggi, che potremmo etichettare come quello della privatizzazione della dirigenza, i ruscelli che hanno condotto alla funzione dirigenziale sono stati tanti – troppi – e non sempre tutti meritocratici: stabilizzazioni mascherate, concorsi fatti in casa e tagliati su misura, iniezioni massicce di famigli hanno contribuito allo sbriciolamento della dirigenza Italiana che, come ha giustamente rilevato Guido Melis, non è mai stata in grado di essere parte rilevante nelle scelte del Paese.
Eppure, è sinceramente sorprendente che il ragionamento di Valotti, al pari di molti di coloro che si cimentano nell’analisi delle nostre burocrazie, glissi del tutto su un’esperienza che, fra i tanti malanni della nostra macchina pubblica, si è rivelata espressione di un forte cambiamento e rinnovamento della dirigenza: il reclutamento e la formazione dei dirigenti pubblici tramite il meccanismo del corso-concorso della Scuola Nazionale dell’Amministrazione (SNA). Dal 1998 ad oggi sono entrati in servizio circa 500 donne e uomini con un sistema quasi rivoluzionario: concorso di ammissione alla Scuola, uno o due anni di corso con esami (con attenzione agli aspetti manageriali, nelle ultime edizioni gestiti, peraltro, dalla Bocconi), sei mesi stage in Italia o all’estero, affidamento di un ufficio pubblico chiavi in mano. Come tutte le esperienze nuove, il percorso è stato accidentato: pochissime edizioni (solo sei in diciotto anni) e talvolta diverse fra loro, con un investimento ingente che non sempre ha corrisposto ad un conseguente utilizzo delle risorse così formate. Tuttavia, è stato fondamentale mettere assieme, fianco a fianco, persone di diversa provenienza per mesi, talvolta per anni, favorendo la nascita e la crescita di quello spirito identitario che alla dirigenza Italiana è sempre drammaticamente mancato. Non va tralasciato, infine, il contributo al ringiovanimento. Con l’ultima edizione del corso-concorso sono diventati dirigenti – o stanno per farlo – donne e uomini sulla soglia dei trent’anni: linfa vitale preziosa per qualsiasi organizzazione, specialmente per quella pubblica, in tante parti sclerotizzata.
Ecco, quindi, che le prescrizioni di Valotti in ordine alle competenze manageriali, alle abilità relazionali, all’orientamento al risultato, sono in realtà già patrimonio consolidato di un’esperienza che non va messa in un cassetto ma, anzi, rilanciata. E se il concorso pubblico deve restare il baluardo – sia pure imperfetto – dell’imparzialità dell’accesso alla PA, le modalità di costruzione della ricerca dei migliori vanno, tuttavia, aggiornate e rese più efficienti. Le dinamiche di una società che corre richiedono al settore pubblico di adeguarsi velocemente e con efficacia a esigenze nuove e in costante cambiamento: eppure sino ad oggi il mondo della politica – tranne, gli va riconosciuto, l’allora Ministro per la PA Renato Brunetta – ha mostrato di credere assai poco alla “Accademia della dirigenza”, e occorrerà vedere come la riforma della Ministra Madia darà direttive concrete col prossimo decreto attuativo. Sono diffusi i timori circa una nebulosa modifica di assetto e missione della SNA (diverrà una sorta di agenzia di accreditamento per il reclutamento e la formazione?) e la penalizzazione dell’accesso tramite corso concorso con l’introduzione di una successiva gavetta di tre anni come funzionari. Ecco perché, mentre si scrive il futuro decreto sulla dirigenza, occorre esortare tutti a non gettar via il bambino con l’acqua sporca. Il vizio della politica è sempre stato quello di voler reinventare la ruota ad ogni giro: stavolta non serve. Facciamo di più, facciamo meglio, ma partendo da quanto di buono è stato fatto.