Il 21 aprile 1985 moriva a San Paolo Tancredo Neves, primo presidente democraticamente eletto (ancorché in elezioni indirette, in Parlamento) dopo il ventennio della dittatura militare. La sua inaspettata scomparsa gettò il Brasile nel caos, aprendo la “decada perdida”, il decennio perduto, tra instabilità politica, crisi economica e esplodere della disuguaglianza. Singolarmente, oggi è il nipote Aécio Neves (candidato sconfitto alle elezioni presidenziali di ottobre 2014) uno dei protagonisti della stagione di instabilità che il Brasile vive in questi mesi.
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Il ticket sul quale finalmente convergono un numero sufficiente di consensi, nella storica elezione del 15 gennaio 1985, è quello che pare assicurare un ragionevole equilibrio tra la discontinuità invocata dal fronte democratico e le garanzie pretese da chi ha accettato di farsi da parte pur avendo ancora la possibilità di chiudersi a riccio mantenendo i vecchi privilegi.
Il presidente eletto è Tancredo Neves, oppositore moderato di lungo corso – era stato primo ministro di João Goulart, il presidente deposto dal golpe del 1964 –, che come suo vice sceglie José Sarney, tipico esponente delle oligarchie del nord-est, che ha da poco abbandonato le fila del partito filo-dittatura Aliança Renovadora Nacional, Arena. Il vicepresidente nell’architettura costituzionale di allora, del resto vigente ancora oggi, è una figura di mera rappresentanza, salvo il caso estremo in cui succede al presidente non più in grado di svolgere il suo mandato. Ma in un frangente in cui il ritorno alla democrazia tingeva tutto di rosa, un’ipotesi così funesta appariva remota, ed effettivamente il 14 marzo 1985 a Brasilia nessuno pensava a Sarney, mentre Tancredo si apprestava a ricevere la fascia presidenziale dall’ultimo presidente militare.
Benché nelle ricostruzioni a posteriori non manchi chi ricordi come il presidente eletto manifestasse sintomi di malessere già in precedenza, la notizia che Tancredo fosse stato ricoverato a poche ore dall’insediamento sorprese il Brasile intero.
Immediatamente operato d’urgenza all’ospedale militare di Brasilia, poi trasferito a San Paolo, non avrebbe più ripreso conoscenza sino alla morte, avvenuta 45 giorni dopo, causata da un tumore del pancreas. Fernando Henrique Cardoso, l’intellettuale di fama internazionale che già era una figura di riferimento nel Parlamento tornato alla democrazia, racconta nella sua autobiografia la confusione e l’incertezza di quei momenti.
La notte stessa del ricovero di Tancredo piombò con un gruppo di leader, insieme ai quali partecipava al ricevimento in onore del presidente del Portogallo, a casa di un eminente giurista, Leitão de Abreu, in quel momento ministro-chefe da Casa Civil ed ex membro del Supremo Tribunal Federal.
Il drappello non poté consultare la biblioteca del padrone di casa, già imballata per il trasloco che sempre accompagna ogni transizione, ordinaria o storica che sia. Nella discussione concitata che si svolse quella notte a casa dell’eminente giurista si intrecciavano questioni di stretto diritto con altre, ben più sostanziali, di opportunità politica, giacché era chiaro a tutti il dilemma di fronte al quale si trovava il paese in quel momento già di per sé eccezionale. Chi era il successore designato, visto che il vicepresidente eletto ancora non era insediato e dunque non era ancora nell’esercizio delle sue funzioni? Mentre l’interessato – il vice José Sarney – diplomaticamente si schermiva, dicendo che in tale situazione (che peraltro tutti ritenevano assolutamente temporanea, all’ora in cui la decisione fu assunta) la supplenza spettava al presidente della Camera dei Deputati, Ulysses Guimarães, a sua volta storico oppositore del regime militare, la questione sullo sfondo era chiara: che reazione avrebbero avuto i militari, di fronte a una soluzione diversa da quella stabilita e costruita con una difficile opera di mediazione politica durante i mesi precedenti?
Alla fine il prescelto fu proprio Josè Sarney, figura ambigua che appariva paradossalmente scontentare tutti, i suoi antichi alleati per la recente «diserzione», il fronte democratico per una conversione troppo fresca per non apparire strumentale.
Divamparono polemiche e reciproci sospetti, ma la verità, continua Cardoso, è che nessuno si aspettava che Tancredo sarebbe morto, non almeno nell’immediatezza del ricovero, quando fu necessario assicurare la continuità istituzionale in un momento di grandissima incertezza.
Nei 45 lunghi giorni dell’agonia, scanditi dal rituale di bollettini medici diffusi dalla televisione, ci sarebbe stato il tempo di abituarsi all’idea della scomparsa del neoeletto presidente. Nella memoria di tutti i brasiliani adulti è impressa la scena del portavoce che la sera del 21 aprile 1985, dalla sala stampa dell’Hospital das Clinicas di San Paolo, annuncia singhiozzando la scomparsa di Tancredo Neves, il simbolo della resistenza negli anni cupi della repressione e della censura, dell’epurazione di ogni voce di dissenso, dell’eliminazione degli oppositori più scomodi.
A complicare le cose ci si misero anche i dietrologi di professione, che abbondano a tutte le latitudini. I bollettini che si susseguivano con cadenza bigiornaliera da giorni non davano speranze di ripresa, e “casualmente” l’annuncio della morte venne nella data simbolo del 21 aprile, festa nazionale, probabilmente una coincidenza, che però – nonostante non siano mai emersi dati concreti in tal senso – alimenta da anni speculazioni circa le reali cause della fine di Tancredo.
Il difficile cammino di una nazione appena tornata alla democrazia inizia sotto i peggiori auspici, che paiono avverarsi negli anni successivi. La giovane democrazia brasiliana inizia il suo mandato navigando a vista, guidata da un «presidente per caso», Sarney, privo di legittimazione politica e di programmi per superare la crisi economica. I suoi piani per stabilizzare l’economia, come abbiamo visto, falliscono uno dopo l’altro e il paese si avvita nella spirale dell’iperinflazione, che nel 1989 toccherà il 2000 per cento.
Il potere d’acquisto del ceto medio si liquefa con il passare delle settimane e dei giorni, i ceti più bassi sono inchiodati alla loro miseria, solo chi ha un patrimonio “reale” vede la sua ricchezza preservata, i ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri.
Esplode la forbice della disuguaglianza, a inizio degli anni 90 il Brasile si troverà secondo nella graduatoria mondiale di questo poco lusinghiero dato, dietro la sola Sierra Leone, un paese africano flagellato da decenni di sanguinose guerre civili. È questa la decada perdida brasiliana, consumata tra tentazioni di estremismo politico, timori di ritorno dei militari, stagnazione economica, svolte populiste e drammatica instabilità politica.
Finirà solo a fine 1994, con l’ascesa alla presidenza di Fernando Henrique Cardoso, il predecessore di Lula. Il loro ciclo congiunto catapulterà il Brasile tra i Brics, le economie più dinamiche del mondo, prima che si apra l’attuale stagione di stagnazione economica e incertezza politica.