Uno dei fattori del vertiginoso calo di consensi del governo di Dilma Rousseff che ha spianato la strada al processo di impeachment in corso è il coinvolgimento del suo Partido dos Trabalhadores nelle inchieste per corruzione che ormai da due anni hanno sollevato il velo sull’intreccio tra politica e affari che domina i palazzi del potere a Brasilia.
A intervalli ricorrenti nei mesi scorsi le piazze brasiliane si sono riempite di moltitudini che chiedevano l’allontanamento di Dilma su presunti presupposti etici, e il simbolo di queste adunate è ben presto divenuto il Pixuleco, un gigantesco fantoccio gonfiabile con le fattezze di Lula, il leader storico del PT, in divisa da carcerato (nella foto, Lula scherza con una miniatura del Pixuleco, che reca l’iscrizione “Luladro”). Galera ai corrotti, ovvero i membri del partito di governo, invocavano i manifestanti a ogni latitudine del subcontinente verdeoro, in manifestazioni imponenti che contavano su una massiccia copertura di giornali e tv, che dettavano prima e amplificavano poi gli slogan delle mobilitazioni.
A dire il vero, però, le inchieste riguardano un po’ tutti, come dimostra la composizione del governo interino di Michel Temer, in cui il capo e ben sette dei ventuno ministri hanno pendenze varie con la giustizia.
Diventa allora interessante osservare – sia pure con i limiti di una analisi che prescinde dall’accesso agli atti giudiziari – come inquirenti e giudicanti si sono comportati verso politici dell’uno o dell’altro schieramento.
Lo scorso 4 marzo, ad esempio, la notizia della condução coercitiva di Lula, prelevato da casa all’alba da decine di agenti in assetto da guerra, semplicemente per essere sentito su fatti in ordine ai quali già aveva deposto in precedenza ebbe enorme ripercussione in tutto il mondo, e in quell’occasione anche Marco Aurelio de Mello, membro della Corte Suprema, rilevò la mancanza di presupposti per la conduzione forzata (che sono il rifiuto dell’interessato a presentarsi). Pochi invece sanno, anche in Brasile, che un altro ex presidente, il suo predecessore Fernando Henrique Cardoso, è stato a sua volta sentito il 29 aprile, perché ciò è avvenuto nella più grande discrezione e la notizia è stata data solo a cose fatte. La questione si è riproposta quando pochi giorni fa Guido Mantega, ex superministro dell’economia di Lula e Dilma, è stato a sua volta prelevato da casa dalla polizia federale per una semplice deposizione: anche lui non aveva opposto alcun rifiuto. Il presupposto della condução coercitiva sembra essere diventato l’appartenenza a questo o quel partito.
Antologico di una certa maggiore “attenzione” verso politici del PT è il video della deposizione di un pentito della Lava Jato, il lobbista Fernando Moura, rintracciabile senza difficoltà su Youtube, a questo link: “un terzo delle tangenti andava a San Paolo, un terzo a Rio, e un terzo a Aécio” (Aécio Neves è il candidato del PSDB sconfitto da Dilma Rousseff alle presidenziali di ottobre 2014 e leader del movimento pro-impeachment), dice il teste nel suo interrogatorio del 3 febbraio scorso, per sentirsi rispondere dalla investigatrice “ma io non le ho chiesto questo, le ho chiesto del coinvolgimento di José Dirceu” (ex esponente di punta del PT). Aécio del resto è recordista di citazioni da parte di pentiti nell’ambito dell’inchiesta Lava Jato (è stato menzionato da sei diversi testimoni), senza che su di lui sia mai stata aperta alcuna inchiesta.
Un altro aspetto che colpisce è il trattamento riservato a Eduardo Cunha, ex presidente della Camera, arcinemico del governo Dilma, i cui conti segreti in Svizzera furono pubblicati a ottobre scorso su tutti i giornali brasiliani dopo che aveva dichiarato sotto giuramento di non possedere conti all’estero. Cunha diede il via libera al processo di impeachment (non prima di aver espunto dalla denuncia contro Dilma le accuse di corruzione, che avrebbero causato non poco imbarazzo in un parlamento dove a decine sono indagati per questo, ma non la presidente) a inizio dicembre, dopo che il PT rifiutò di offrirgli protezione nel processo per la sua espulsione dal parlamento avanti la commissione di etica della Camera. La denuncia contro di lui del Procuratore Generale Janot (in cui era definito “delinquente”) è stata esaminata dal Supremo Tribunal Federal solo sei mesi dopo, e dopo che aveva diretto la fase del processo di impeachment culminata con il voto del 17 aprile che mostrò al Brasile e al mondo un “circo degli orrori”, in cui nelle dichiarazioni di voto dei deputati pro-impeachment a fianco di decine di dediche “familiari” non mancarono encomi ai torturatori della dittatura. La Corte Suprema il 5 maggio lo depose con un provvedimento d’urgenza, urgenza non si sa di cosa, sei mesi dopo la denuncia; semmai, si potrebbe maliziosamente osservare, terminata la sua missione, era cessata l’urgenza di mantenerlo in un posto in cui era di fatto indispensabile, perché unica figura in grado di garantire tempi e esito del processo da lui avviato, grazie anche al potere di ricatto che il suo coinvolgimento nel sistema corruttivo gli garantiva su molti deputati.
Anche il trattamento giudiziario di moglie e figlia di Cunha è interessante. Per mesi l’inchiesta che le riguardava, come cointestatarie dei conti illeciti del congiunto, è stata ferma al STF, nonostante loro come private cittadine non godano di “foro privilegiado” (sono cioè soggette alla giurisdizione ordinaria, non a quella esclusiva della Corte suprema). Da quando il 15 marzo scorso finalmente la Corte Suprema lo ha trasmesso al giudice Moro, titolare dell’inchiesta Lava Jato, del loro incartamento si è persa ogni traccia, fatto singolare vista la solerzia sempre dimostrata da quello che è diventato il paladino della lotta alla corruzione. Solerzia che per esponenti del PT e imprenditori si è spesso tradotte in lunghe carcerazioni preventive (sorta toccata, tra gli altri, al tesoriere del PT João Vaccari Neto, allo spin doctor di Dilma João Santana e alla moglie, all’imprenditore Marcelo Odebrecht), mentre le donne del clan Cunha oltre che a piede libero non hanno ricevuto neppure un garbato invito a comparire.
Sempre a proposito di Moro, il mondo intero – ancora una volta – ricorda il suo exploit del 16 marzo, quando diffondendo tramite Rede Globo una conversazione priva di rilievo penale tra Dilma e Lula (violando così apertamente l’immunità della prima), subito spacciata dal conglomerato mediatico egemone in Brasile come la prova provata che la nomina a ministro dell’ex presidente mirava esclusivamente a sottrarlo appunto all’inchiesta Lava Jato, fornì a Gilmar Mendes, giudice della Corte suprema di passata militanza nel PSDB, il pretesto per la sospensione della nomina, definita illegittima perché viziata da “sviamento di potere”. Una misura a dir poco opinabile, perché si impediva a una presidente nel pieno dei suoi poteri di esercitare una sua prerogativa, quella di nominare un soggetto che a sua volta godeva di pieni diritti politici, e che ha finito per impedire a una Dilma ormai all’angolo di giovarsi della capacità di dialogo e negoziazione di cui Lula è un riconosciuto maestro.
La divulgazione dell’audio delle telefonate è avvenuta istantaneamente, in tempo per il tg di Rede Globo del giorno stesso. Quando invece gli inquirenti qualche giorno dopo hanno rinvenuto negli uffici del colosso delle costruzioni il libro mastro delle tangenti degli ultimi trent’anni (subito ribattezzato dai media “lista Odebrecht”), in cui apparivano politici di tutti gli schieramenti, Temer e Cunha in testa, ma non Dilma e Lula, lo stesso Moro è stato lesto a porre il tesoro istruttorio, e Rede Globo (che ha per mesi sistematicamente rivoltato come un calzino la vita privata di Lula) ha pudicamente annunciato che “non essendo possibile trovare riscontri”, non avrebbe fornito dettagli sulla lista, che è così immediatamente sparita dai notiziari.
Ancora a proposito di nomine eccellenti, quando giovedì 12 Michel Temer ha nominato sette ministri indagati, due dei quali non parlamentari (Henrique Alves e Geddel Vieira Lima), che passavano così – come sarebbe accaduto a Lula in precedenza – a godere di “foro privilegiado”, nessuna misura analoga è stata neppure ventilata da nessun membro della Corte suprema, men che meno da Gilmar Mendes. Che anzi quando il 10 maggio gli è stato preannunciato il ricorso con cui in extremis il governo cercava di bloccare il voto del Senato che ha determinato la sospensione di Dilma in attesa del verdetto definitivo ha pubblicamente preannunciato il suo rigetto, dichiarando “per me possono ricorrere anche al Papa o al diavolo”. Un atteggiamento, quello di manifestare la propria decisione prima di esaminare il merito che sarebbe inaccettabile anche per un giudice di pace, in Italia come in ogni altra parte del mondo, ma evidentemente non in Brasile.
Sono tutti episodi di pubblico dominio, che portano a chiedersi se davvero il sistema giudiziario brasiliano sia neutrale nel feroce scontro per il potere da mesi in scena a Brasilia. Anche se il fatto che il ministro della giustizia del governo interino, Alexandre de Moraes, sia stato l’avvocato del PCC, il Primeiro Comando da Capital, la più estesa e violenta organizzazione criminale di San Paolo non lascia presagire nulla di buono.