Con il voto del Senato di ieri entra nel vivo il processo di impeachment contro Dilma Rousseff. Il voto della Camera del 17 aprile aveva determinato l’ammissibilità del processo, ora il Senato, trasformato in Corte ad hoc, dovrà giudicare entro 180 giorni se la presidenta ha commesso o no i reati di cui è accusata. Se ritenuta colpevole, perderà definitivamente il mandato e sarà ineleggibile per otto anni. Quale ulteriore conseguenza, il voto di ieri ne ha determinato la sospensione della carica, che viene assunta ad interim dal vice Michel Temer, che ha già formato il suo governo.
Il procedimento di impeachment disegnato dalla costituzione brasiliana del 1988 ha una duplice natura, giuridica e politica. Sotto il primo profilo, deve fondarsi su fatti specifici, previsti dalla legge come “crimes de responsabilidade”, gli unici che permettono la messa in stato d’accusa del presidente. Sotto questo aspetto fonti autorevoli, in Brasile e fuori, hanno sottolineato i numerosi dubbi sulla fondatezza delle accuse a Dilma, sia per quanto riguarda la sussistenza dei fatti, sia dubitando della loro inquadrabilità nelle fattispecie scolpite dalla legge.
Ma gli organi chiamati a giudicare sono appunto Camera e Senato, dove le valutazioni si colorano inevitabilmente di considerazioni di natura politica.
La diatriba tra chi grida al golpe e chi invece rivendica la legittimità del processo in corso sta tutta qua: i primi rimarcano l’assenza di fattispecie incriminatrici tipiche, i secondi osservano che delle irregolarità comunque sono state compiute. Quello in corso è quindi un procedimento che usa strumenti formalmente previsti dalla Costituzione per un regolamento di conti politico, tra forze che dominano economia e media brasiliani e tuttavia reduci da quattro sconfitte elettorali, tra il 2002 e il 2014, da un lato, e un governo democraticamente eletto ma che ha perso contatto con una larga fetta del suo elettorato, dall’altro.
Il fatto è che il sistema di governo brasiliano, di natura presidenzialista, non prevede la possibilità di “sfiduciare” il presidente, che tuttavia ha perso la fiducia di entrambi i rami del parlamento, come evidenzia l’esito delle votazioni. Gli eventi in corso segnano dunque la crisi del sistema politico-istituzionale uscito dalla ridemocratizzazione degli anni 80. Non più presidenziale, non certo parlamentare, perché nessuna decisione formale è stata assunta in tal senso, esso non appare oggi in grado di assicurare un quadro di riferimento stabile che consenta l’uscita da una crisi che è politica prima ancora che economica.
Il problema è che se il consenso di Dilma è a livelli molto bassi, quello di Temer, come rilevato dai sondaggi, è ancora minore, con l’aggravante che egli non potrà invocare neppure un’investitura popolare, apparendo anzi a larghi strati della popolazione come un usurpatore. Il suo cammino si presenta quindi particolarmente difficile, oltretutto se si considera che le incertezze di carattere politico-economico non sono le uniche variabili in campo. Il procedimento di impeachment infatti non è interamente codificato, complice il fatto che c’è un solo precedente, quello di Collor nel 1992, dunque sono possibili in ogni momento ricorsi della difesa di Dilma al Supremo Tribunal Federal, che potrà intervenire tanto su questioni di rito quanto su aspetti di merito.
Lo stesso Ricardo Lewandowski, il presidente della Corte Suprema che presiederà le sessioni del Senato dedicate al giudizio, ha espressamente affermato lo scorso 15 aprile che “al momento adeguato la Corte potrà affrontare le questioni legate alla tipizzazione delle condotte contestate alla presidente”.
Certo, in questo intrecciarsi di considerazioni di carattere politico con questioni più strettamente giuridiche, oltre al se conterà molto anche il quando. Se infatti il governo Temer saprà vincere le avverse condizioni di partenza e stabilizzare un paese provato da tre anni di crisi, è opinione unanime degli osservatori, sarà praticamente impossibile per Dilma tornare al suo posto.
Altre incertezze di fonte giudiziaria potrebbero infine venire dal coinvolgimento dello stesso Temer e di ben sette dei suoi ministri nelle inchieste in corso, un fatto di per sé davvero paradossale, se pensiamo che la lotta alla corruzione (in questo abilmente sfruttata dai media egemoni, tutti sostenitori del “nuovo” governo, Rede Globo in testa) è stata lo stoppino che ha alimentato nei mesi scorsi ampie proteste di piazza contro Dilma Rousseff, sul cui capo finora non pesano accuse di questo tipo. Non a caso nell’accettare la denuncia contro Dilma, che nel dicembre scorso diede avvio all’impeachment, l’allora presidente della Camera Eduardo Cunha espunse le accuse di corruzione, ad oggi peraltro ancora non provate contro la presidente. Lui stesso, come molti parlamentari e lo stesso Temer, era coinvolto a vario titolo nell’inchiesta Lava Jato, e affrontarla nel dibattito parlamentare sarebbe stata un’arma a doppio taglio. Rimosso Cunha dalla Corte Suprema pochi giorni fa (con colpevole ritardo, il che non depone certo a favore dell’imparzialità del STF), proprio per fatti di corruzione, è venuto a mancare nelle fila dell’opposizione, ormai giunta al governo, lo spregiudicato manovratore che ha tirato sin qui le fila dell’impeachment con cinica perizia, tenendo i suoi al riparo delle inchieste.
Ultima notazione, il governo Temer appare certamente un passo indietro sotto il profilo della reale rappresentatività della società brasiliana, come reso evidente dalla foto dell’insediamento. E’ composto infatti di soli maschi bianchi, quasi tutti avanti negli anni, di censo elevato. Tra l’altro era dal 1979 che il Brasile non aveva un governo di soli uomini. Per tanti fattori, insomma, il governo Temer non avrà vita facile.