“Niente qui farebbe pensare che siamo ad Aleppo. Eppure è questa la nostra città.
Tutto ciò che la riguarda è deprimente.
Le strade tremano in rovina, le costruzioni sono in fiamme.
Volti pallidi. Sguardi confusi. Si parla piano. Siamo stanchi. Abbiamo perso le parole. Siamo persi in un mare di tristezza. Attendiamo la vita o la morte, la salvezza o l’abbandono…”
“Sono le 4 di notte, raid intensi sulla città di Aleppo. Gli incendi divorano le case delle persone nel quartiere…
Non vogliono che questo corpo stanco riposi”
“Continuano i bombardamenti con le bombe al fosforo. Non si fermano gli incendi”
È la notte del 13 ottobre. Mohammed Al Khatieb non può dormire. Così scrive sui social, oggi come ieri. Da due giorni non c’è alba che possa lasciare respirare Aleppo ribelle. Da tre l’inferno non cala il sipario sulla città macellata dalla vendetta di Assad…
È l’inferno del cielo solcato dagli aerei russi. L’inferno di un incubo più vero della paura, delle bombe, degli incendi, del fuoco smesso dei sogni accantonati, confuso alle fiamme e al fumo di corpi alla brace e rovine di ricordi e mura. La rivoluzione e l’impotenza nello stomaco vuoto, nel buio illuminato dallo schermo del cellulare. Whatsapp, facebook, twitter a cercare vite e speranze lì fuori. Intrappolati. Qualunque rimpianto è inutile. Non si può scappare. La città è sotto assedio. O si vive o ci si abbandona…
Intanto si muore. Nel sangue, per le strade, tra le rovine delle proprie case, negli ospedali improvviati e in quelli ancora in piedi. E si muore anche nello spirito. Se non ci si deprime si corre la tentazione di farsi sadici e cattivi. Oppure, spenti o murati nell’indifferenza, ci si toglie il cuore dagli occhi e dalle mani. Per vivere lo si riprende in fretta. Occorre farlo. Sentirlo tutto, pesante. Soccombergli e lasciargli fiatare tutte le emozioni del mondo.
La rabbia? Anche quella, ma con gentilezza, quella propria dei musulmani. Inevitabile poi il raccontare al mondo. fino all’ultima parola, fino all’ultimo respiro. Non che serva a molto. Lo stesso Shamel Al Ahmad l’aveva capito, a un certo punto. Era tutto inutile. Eppure fin a pochi giorni dalla bomba che ha deciso per la sua morte, la speranza gli brillava negli occhi mentre scattava l’ultimo selfie…
“Siamo circondati. E siamo tutti alle prese con la battaglia più difficile della nostra vita, sotto assedio, terrorizzati dai più grandi imperi del male. Non pensiate che siamo deboli, ribelli! Tutto il contrario”.
Con queste e altre parole uno dei White Helmets stamattina rincuorava gli amici sul suo wall.
Avrebbero poi passato ore su ore a rinvenire corpi dalle macerie, a metterne in salvo alcuni…A provarci.
Loro, che qualcuno ancora chiama terroristi.
Hozaifa, un altro giovanissimo ribelle, uno dei medioattivisti del giro dell’ “Aleppo Media Center, giorni fa ha provato a lanciare un messaggio al mondo, l’ennesimo:“We in Aleppo are not terrorists, however we are being wiped out because we only demanded freedom.”
L’ho incrociato in tante foto. Lo conoscevo prima ancora di sapere il suo nome. Come lui gli altri ribelli. In alcuni video mi capita di trovarli insieme, qualcuno più noto, altri meno. Sempre gli stessi, tanti, seduti in terra a cantare le loro flying waves, le onde che-speravano- li avrebbero portati in alto, leggeri, sopra il terrorismo del potere, dei soldi, dell’indifferenza, dell’ipocrisia…
Non voglio invadere la loro intimità, non vi faccio vedere quei fotogrammi. Ascoltate questa canzone, invece…Forse possono farcela, se provano a sentirla ancora…
https://www.facebook.com/flying.waves.production/videos/1621453721411153/
EDIT: mentre scrivevo questo post è arrivato un altro tweet di Mohammed Al Khatieb, un’ora fa.
E poi questo…
Ho paura, tanta. Non si dorme neanche qui, in Italia.