La campagna referendaria, ormai pienamente avviata, dà prova di essere gestita dai suoi agitatori più con uno spirito da curva da stadio – con tanto di tifoserie contrapposte – invece di essere momento di confronto non solo sulla riforma che verrà valutata dall’elettorato, ma sul modello di stato e di società che si vuole per questo paese.
Non faccio mistero della mia convinta adesione alle ragioni del No, per cui premetto da subito che le mie sono considerazioni di parte – com’è giusto che sia, di fronte a un appuntamento elettorale di tale portata – e personali, quindi con tutti i limiti che tale approccio può portare con sé. Detto questo, desidererei proporre alcune idee sul mio “fronte per il No” ideale, specchio dell’Italia che vorrei e che so già non uscirà dalle urne di dicembre, ma che forse dovremmo cominciare a pensare e a progettare per fare in modo che il nostro paese possa essere una democrazia più strutturata.
Innanzi tutto, il mio “fronte del No” è quello che non ha paura delle ragioni del sì. Riconoscendo nella schiera opposta un avversario che ha piena legittimità da cui trarre altrettanta liceità nel proporsi, da parte nostra, come alternativa. Atteggiamento che non trova riscontro nelle curve dell’una e dell’altra “squadra”, soprattutto laddove si indirizzano all’interlocutore frasi quali “tu voti come…” inserendo subito dopo termini quali “Verdini”, “Casa Pound” e meraviglie argomentative similari. A tale proposito, consiglio sempre la lettura del testo di Diritto e Giustizia, in modo che ci si possa fare un’opinione sul merito della riforma.
Secondo me, perciò, nei momenti di dibattito è buona cosa riportare argomenti e documenti della parte avversa, proprio per dare forza maggiore alle proprie ragioni: ovvero quelle di chi vuole uno stato con un’architettura costituzionale in grado di reggere a fenomeni già visti come il ventennio berlusconiano, che tanto male ha fatto al nostro paese ma che ha intaccato in misura non sostanziale il nostro ordinamento. La nuova costituzione, invece, se legata all’italicum (ammesso che Renzi non lo cambi, a seconda dei sondaggi del momento) rischia di consegnare tutto il paese a oligarchie specifiche. E se già mi sembra poco esaltante che nella stanza dei bottoni vi siano l’attuale premier e il suo staff, mi appare tragica la prospettiva per cui un giorno la maggioranza alla Camera, la possibilità di eleggere il presidente delle Repubblica, il controllo su Rai e Corte Costituzionale possano essere gestiti da regie esterne (si veda la voce Beppe Grillo) o dalle intellighenzie di partiti come la Lega, Fratelli d’Italia o peggio ancora.
Credo ancora che il linguaggio messo in campo debba evitare il lessico della distruzione, a cominciare dal verbo “asfaltare” e sinonimi, tanto in voga dall’altra parte. Il fronte del sì, va ricordato, è anche quello del “ciaone” sull’esito elettorale della consultazione sulle trivelle, cosa che dimostra il grado di rispetto per quella parte politica del voto di cittadini e cittadine. Proprio perché dalla parte del No abbiamo esempi ugualmente poco edificanti, eviterei di porci allo stesso livello. Si potrà parlare di vittoria e di sconfitta, si potrà dire – se lo vogliamo – che abbiamo preservato (o ci abbiamo tentato) la Costituzione nata dall’antifascismo, valore che dovrebbe guidarci sempre. Ma eviterei dileggio e disprezzo. Sempre che non si voglia essere paragonati a Carbone o chi per lui.
Il 5 dicembre, quindi, se vincenti non dovremmo cedere alla logica della vendetta e, se perdenti, accettare l’esito democratico del voto. Non credo vi sia altra strada, oltre quella di pensare a una classe politica nuova che abbia davvero a cuore il bene comune e che non si divida tra tre forze (confessionale ed economica, l’una, malpancista e xenofobo-reazionarie le altre) come quelle attuali, il cui unico scopo sembra la giustificazione della loro presenza nei palazzi del potere.
Concludo inoltre con un invito a non confondere il riconoscimento dell’altro con l’acritico buonismo. Accettare l’esistenza di posizioni altre non significa scongiurare una critica, anche aspra, nei loro confronti. Libertà di pensiero e di parola, infatti, non passano dall’eccesso del politicamente corretto, ma dal dovere all’ascolto. E se ascoltiamo qualcosa che non ci piace, abbiamo il dovere di contestarlo, con gli strumenti della polemica, dell’argomentazione, del sarcasmo, dell’ironia. Rientra nella logica della democrazia, a ben vedere. La stessa che siamo chiamati a rendere più forte nell’appuntamento di dicembre.