Il 26 novembre prossimo ci sarà a Roma Non una di meno, manifestazione contro la violenza sulle donne, agita da un certo tipo di maschi – e per questo detta “maschile” – che si traduce molto spesso in femminicidio. Tale crimine, forse il fenomeno più vistoso che scuote maggiormente le nostre coscienze, ma non è di certo l’unica forma di violenza che colpisce il mondo femminile. Dalla marginalizzazione sociale alle discriminazioni sul mondo del lavoro, fino agli abusi sessuali e alle percosse, è vario il caleidoscopio di prepotenze che possiamo ricordare. Contro tutto questo, perciò, è giusto e bello che si vada in piazza.
Negli ultimi giorni, tuttavia, complici alcune esponenti del “femminismo della differenza”, il dibattito sull’evento ha preso una piega che assume i connotati di una guerra tra i sessi, in nome di uno spirito di rivalsa contro il genere maschile nella sua totalità. Parrebbe, a leggere certe dichiarazioni rilasciate sui social network, che esista una violenza esclusivamente maschile di cui tutti i maschi sono portatori (più o meno sani) e che per tale motivo, sarebbe il caso che essi o non partecipassero alla manifestazione o fossero confinati nella parte finale del corteo.
Questo tipo di atteggiamento ha ferito – mi si passi il termine – molti amici e compagni di lotta che non si riconoscono in quella violenza di genere e che volevano scendere in piazza per portare la loro solidarietà alle loro, alle nostre compagne. Maschi eterosessuali e maschi omosessuali che adesso si sono interrogati, ed io tra quelli, se fosse il caso di partecipare al corteo. Sia ben chiaro: che dentro un movimento composito come quello femminista vi siano frange estreme è facilmente intuibile. Così come la sinistra ha i suoi facinorosi che incendiano cassonetti e macchine e così come il mondo cattolico ha i suoi talebani che scendono in piazza contro i diritti civili. Film già visto insomma.
Per quello che mi riguarda, sostenere come hanno fatto certe esponenti di quel tipo di femminismo che esiste un solo tipo di violenza e che questa è sempre maschile, non solo offende milioni di maschi, che violenti non sono, e dipinge le donne come soggetti naturalmente deboli (è questo che vuole, quel tipo di femminismo?), ma non tiene conto di una violenza culturale di più vasta portata – di cui la violenza maschile è un prodotto – che si abbatte anche sui maschi stessi. Ricordiamo come i soggetti “fuori norma” vengono dileggiati e insultati dalle donne esattamente come farebbero certi uomini e che essi vengono uccisi, come nei casi di omofobia, da quegli stessi uomini esattamente come si fa con le donne. Per fare un solo esempio.
Il dibattito è accesissimo e contro questa impostazione si sono schierate, a livello pubblico e privato, anche le donne stesse. Graziella Priulla, femminista e docente a Scienze Politiche dell’Università di Catania, scrive sul suo gruppo: «Così non si va da nessuna parte. Gli obiettivi che ci poniamo quando lottiamo contro la violenza di genere sono complessi e non si possono sintetizzare in un orrendo (e stupido) “gli uomini in coda”. Il problema non è costituito dagli uomini (non avevamo abolito le generalizzazioni?) ma da una cultura che ha danneggiato anche loro, privandoli di parti essenziali di sé».
La blogger Milena Cannavacciuolo, su Lezpop, dichiara: «Il separatismo che tanto bene ha fatto alle donne negli anni passati, ora è pericoloso. Partiamo da una considerazione: il mondo è diventato sempre più piccolo, volenti o nolenti, siamo costretti a vivere l’uno accanto all’altro. Uomini e donne, bianchi e neri, etero e gay, alti e bassi, belli e brutti, tutti ammassati in un pianeta sovrappopolato. E questa cosa spaventa: mica è facile stare tutti vicini vicini? Allora, se un Donald Trump qualsiasi diventa presidente degli Stati Uniti non stupiamoci se una delle carte vincenti è la promessa di erigere un muro al confine con il Messico».
Sul blog femminista Abbatto i muri, si riportano le parole dell’attivista Jinny Dalloway: «Per me invocare un separatismo differenzialista (che aveva il suo senso rivoluzionario negli anni ’70) non è la soluzione, ma parte del problema, e perciò il 26 novembre starò gioiosamente nello spezzone transfemminista queer, libera dalle gabbie imposte da queste tristi Signore “Donne”». E sempre sul blog in questione, possiamo leggere ancora: «Qualcuno ha deciso che gli uomini stanno in coda? Ma chi lo ha deciso? A nome di chi? E se io sento di avere in comune con molti uomini, antisessisti, straordinari, più di quel che ho con donne il cui femminismo prevarica e offende la mia intelligenza, perché mai dovrei pensarmi lontana da “gli uomini” in corteo?».
Per quello che mi riguarda – e il mio è solo il punto di vista di un uomo che non crede che la violenza sia mai una soluzione – al di là dei comprensibili malumori delle ultime ore da parte dei miei amici e dei miei compagni, penso solo una cosa: il posto più giusto, il 26 novembre, sarà accanto alle donne a cui vogliamo bene. Le donne per e con cui lottiamo. Ho una madre, una sorella, una coinquilina, delle amiche, colleghe e allieve e forse un domani potrei avere figlie e nipoti. Ogni torto fatto a loro è fatto anche a me. Per questo la violenza di genere (maschile, nello specifico) è una cosa che mi riguarda. Che ci riguarda tutti. Per questo si va in piazza: non perché lo vogliamo, ma perché dobbiamo.
Poi se qualche “femminista della differenza” – che poi, a ben vedere, sono quelle che sulla Gpa la pensano Adinolfi e che sulle sex worker hanno idee simili all’elettorato dell’estrema destra clericale e questo dice ogni cosa – non apprezza la mia presenza perché sono maschio, può sempre valutare l’idea di rimanersene a casa. La piazza non può che trarne giovamento, sempre a mio modesto parere.