TecnopinioniPolitici e giornalisti anti Facebook: nostalgia canaglia

È difficile da accettare, ma vivo in un Paese dove la presidente della Camera suggerisce al responsabile continentale della policy di Facebook qualche sua idea per fermare le brutte parole, quando ...

È difficile da accettare, ma vivo in un Paese dove la presidente della Camera suggerisce al responsabile continentale della policy di Facebook qualche sua idea per fermare le brutte parole, quando ci sono i migliori cervelli del mondo che ci stanno lavorando, mentre il Guardasigilli fa il duro in una intervista sostenendo che il social network dovrebbe essere ritenuto responsabile penalmente di quanto dicono le persone al suo interno, buttando al macero vent’anni di diritto applicato a Internet.

Gli onorevoli Laura Boldrini e Andrea Orlando sono solo gli ultimi due esempi, i più recenti, dello stato intellettualmente pietoso della politica quando parla del web, perfetta compare del comportamento vendicativo dei media, che da mesi hanno fiutato nella buzzword fake news (bufala, falsa notizia) l’ariete col quale sfondare le ultime resistenze mentali dell’opinione pubblica, già provata dalla crisi sistemica e dal terrorismo, e ottenere il via libera a un’operazione di controllo e censura senza precedenti. Con il sogno neanche tanto nascosto di tornare ai bei tempi di quando le bufale, le manipolazioni, la divisione della torta, erano affare lasciato al monopolio del matrimonio partiti-informazione stampa-radiotelevisiva. Nostalgia canaglia.

Non so più cosa pensare: credono davvero a quello che dicono e non calcolano le conseguenze oppure sono in malafede? Sulla prima categoria, quella dei politici, tendo a credere alla prima ipotesi. Prendiamo le parole esatte pronunciate da Laura Boldrini a proposito di un fantomatico manifesto che intende scrivere insieme ad alcuni famosi debunker (tralasciamo in questo post il paradosso di vederci inclusi studiosi che hanno dimostrato che il debunking non serve a nulla: ne parleremo un’altra volta):

“Ci hanno detto (i social, nda) che il loro impegno è facilitare la cancellazione del messaggio violento. Ma il messaggio circola comunque. Non può essere questo il modo di affrontare un tema così profondo e grave.”

Quelle del ministro Orlando:

“È arrivato il momento di mettere le cose in chiaro: Facebook non può più essere considerato un semplice veicolo di contenuti (lo è per definizione, e non è affatto semplice, ma fa nulla, nda). Se su una bacheca vengono condivisi messaggi d’odio o propaganda xenofoba è necessario che se ne assuma la responsabilità non solo chi ha pubblicato il messaggio ma anche chi ha permesso a quel messaggio di essere letto potenzialmente in tutto il mondo. Al momento non esiste una legge che renda Facebook responsabile, ma di questo discuteremo in sede europea prima del G7.”

Avete capito? Le traduco in parole semplici. La presidente della Camera immagina dei filtri preventivi che anticipino la pubblicazione di un qualunque contenuto aggressivo. Il ministro Orlando immagina responsabilità penali dirette di un social network per qualunque cretinata che un individuo possa mettervi. Non la faccio lunga: sul piano del diritto e della libertà di espressione, siamo sul terreno delle restrizioni cinesi. Sul piano tecnico, c’è una confusione enorme e un ritardo sul dibattito su quanto Facebook sia media company, ridicolmente superato e superficiale come da stessa ammissione di Mark Zuckerberg, che di recente ha evidenziato come consideri la sua creatura non una media company tradizionale ma comunque responsabile di quanto accade per la dimensione che ormai ha raggiunto.

È un’ovvietà. Tutte le tecnologie comunicative sono essenzialmente mediatiche. Le piattaforme di intermediazione come i social, figuriamoci. Il punto è stabilire quanto siano informative. Più interessante, ma complesso. Tutto ciò che ci informa è mediatico, ma non tutto ciò che è media è “press”, è informazione, risponde eticamente dei contenuti come un’impresa giornalistica. Confondere queste due anime, questi due livelli, finisce per farci cascare in questi madornali errori. Chi accetterebbe di vedere approvata una legge che ritenesse un giornale responsabile penalmente per aver pubblicato una notizia falsa o la lettera aggressiva di qualcuno? Nessuno. Basta ripercorrere il dibattito, accesissimo, nella parte del dovere di rettifica nel contesto della riforma della legge sulla stampa, ferma in parlamento da due anni, per capire come tutto sia percorso da una incredibile ipocrisia.

Per la FNSI era fondamentale che non fosse prevista l’incarcerazione in caso di diffamazione del giornalista (reato assai più grave della diffusione di una notizia non riscontrata o inesatta) e anche solo sull’obbligo di rettifica senza commento e in tempi più brevi si è parlato di querele temerarie e rischio di autocensura. Invece, se si parla di Facebook, equiparato alla bell’e meglio a un giornale, non si hanno scrupoli. Si plaude al ministro che parla di penale. Peccato però che esista già una deontologia sui social, peraltro approvata con un aggiornamento l’anno scorso da parte dell’OdG: non deve mai venire meno l’obbligo del riscontro delle fonti; Facebook dal canto suo ha reso pubbliche alcune mosse per contrastare il fenomeno. Nessuna delle quali, giustamente, prevede l’arbitrio del social stesso. Si agisce sulle pratiche, non sull’habitat facendolo a pezzi. È una regola di buon senso.

Tra gli strumenti allo studio e in fase sperimentale, Facebook sta lavorando a una raccolta esterna di segnalazioni degli utenti con l’ausilio di un software di tracciamento, esaminate da un team di esperti debunker; le storie ritenute false verrebbero in seguito etichettate (e non cancellate) come “contestate da controlli terzi” mentre il social manipolando l’algoritmo potrebbe assicurarsi che le stesse abbiano meno visibilità; inoltre, ogni volta che gli utenti intendessero condividere questa notizia verrebbe fatta una domanda di rinforzo. Perché questi meccanismi tanto più complessi rispetto alle facili soluzioni dei nostri politici? Perché al contrario di questi ultimi, c’è gente che usa il cervello.

Andiamo ancora più alla base di queste assurdità. Anche senza discutere di cosa è una piattaforma e della differenza tra ciò che è media e ciò che è press, anche solo restando sul lato matematico, proposte come quelle del ministro, o della Boldrini, in Italia, ma anche proposte simili che ormai si leggono nel Regno Unito, in Germania, Usa, sono ridicole. Nei tre minuti che avete impiegato a leggere questo articolo, sono stati pubblicati su Facebook l’equivalente in caratteri di un’enciplopedia e 900 ore di video su YouTube. Un’ora di Internet corrisponde circa a duecento anni di vita umana di un singolo individuo. Non ci si pensa mai, a meno che non si studi con coscienza: è completamente insensato utilizzare le categorie fisiche e psicologiche di tempo, spazio e conoscenza del dato applicandole pedissequamente alla Rete. Davanti a chi afferma pomposamente “se qualcuno pubblica una falsità è colpevole Facebook” bisognerebbe provare la stessa compassione che si proverebbe per chi sostenesse che se una termite ha la tosse è colpa dell’OMS. Di fronte a questo ostacolo numerico l’unica soluzione possibile sarebbe sfruttare ancora di più gli algoritmi, cioè la matematica stessa alla base di quei social che certi politici attaccano e – suprema contraddizione! – accettando di delegare agli stessi social il potere di decidere cosa è bene e cosa è male secondo un criterio totalmente arbitrario, opaco, politicamente oscillatorio, e potenzialmente censorio.

Nei primi anni Duemila si prendevano in giro quelli che consideravano il web colpevole di quanto vi era scritto, dicendo che era come prendersela col muro per i manifesti che qualcuno vi attaccava, o col telegrafo nell’Ottocento. Per un po’ ha funzionato, essendo una metafora semplice. Quasi vent’anni e almeno un paio di crisi internazionali e organizzazioni terroristiche dopo, oltre a una crisi economica a cui potrebbe seguire una stagnazione secolare e il progresso dei populismi in tutto il mondo occidentale, si è trovato uno obiettivo banale che può diventare anche un modo per sorvegliarci, censurarci, convincerci di avere “troppa libertà”. La gente però non è pazza. È spaesata ed è in piena crisi di fiducia: non dovrebbe essere questo a importare alla politica? No, preferiscono prendersela con la Rete, nello specifico i social network. In UK approvano la legge IPBill, la più restrittiva di sempre, in molte nazioni non europee Internet è completamente sorvegliato, in Europa ogni elezione corrisponde a proposte di legge sui social (in Germania qualcuno ha ipotizzato multe a Facebook), negli Usa se sei straniero in viaggio senza visto ti chiedono tutti i tuoi account per spiarli. Così, alla luce del sole. Come fosse normale.

Invece non è normale, è ora di spiegarlo e dirlo a gran voce. C’è un destino dentro la tecnologia che cambia l’uomo e il mondo. Bisogna leggerlo, non farsi prendere dalla rabbia, dal panico, dalle vendette economiche di un ex monopolista. Bisogna cercare di far capire alla Silicon Valley che hanno interesse a far vivere i produttori di contenuti, così come è fondamentale l’opera regolatoria degli organismi politici. Certo però che se i produttori di contenuti e la politica si comportano così, non otterranno nulla e le loro proposte meritano di essere considerate come colpi di coda di un sistema marcio.