TecnopinioniSoluzioni alle bufale: azzeriamo tutto e parliamone tra persone serie

È finita. Quanto meno sta scemando. L’abbuffata incontrollata di proposte assurde su come controllare o addirittura impedire le bufale online ha lasciato le home page, le pagine dei quotidiani, gli...

È finita. Quanto meno sta scemando. L’abbuffata incontrollata di proposte assurde su come controllare o addirittura impedire le bufale online ha lasciato le home page, le pagine dei quotidiani, gli studi televisivi in prima serata. Non farò nessuna cronistoria puntuale, non voglio rivitalizzarle nei motori di ricerca dove comunque saranno ancora per molto tempo ben posizionate. Sono le proposte che hanno colonizzato il dibattito nazionale con immani scemenze da far “ridere i polli” (cito Flavia Perina, che Dio l’abbia in gloria): leggi, filtri preventivi, responsabilità penali a casaccio, potere ai social e ad algoritmi scritti “politicamente” di decidere cosa è vero e cosa è falso, cosa dobbiamo vedere e cosa no. Assai raccontate e riprese dalla metà di dicembre fino a pochi giorni fa: quelle di Laura Boldrini e di Andrea Orlando, in ordine di gravità, passando per il presidente dell’Antitrust (attorno alla fine dell’anno, la peggiore di tutte) fino alla contro-proposta-risposta di Beppe Grillo, che ovviamente sentendosi tirato per la giacca l’ha buttata in caciara com’è suo stile abbassando ulteriormente il grado di intelligenza.

Per un bel mese si è davvero discusso come si trattasse di una cosa pensabile – non dico attuabile: pensabile – di strumenti giudiziari ad hoc per stabilire verità e falsità della Rete e solo della Rete, di caccia ai bufalari come si trattasse di battaglie politiche locali incistate in fantomatiche strategie geopolitiche putiniane, in un coacervo di campagne giornalistiche, titoloni, dichiarazioni allarmistiche di esperti usciti non si sa bene da dove, bellicose proposte di politici favorevoli ai tribunali di stato o a quelli popolari. Tutti ignorando ogni elementare cognizione della debolezza logica di questa discussione e anche, ma questo è già più ovvio, della impenetrabile superiorità matematica del problema. Insomma uno spettacolo immondo, un Barnum di anti-fake che aveva promesso di affrontare definitivamente il problema e poi si è limitato a tirar fuori mezzi fascisti che se le danno a gambe, statistiche da fiera di paese, personaggi di secondo e terzo piano spacciati come il cuore di una crisi democratica che, ovviamente, ovviamente!, nasce e si dirige altrove. Guardatevi attorno: ha a che vedere con una crisi di fiducia, endemica e strutturale, delle masse verso le reputazioni dei media, della politica, della scuola, della medicina. Di tutto quanto.

Alla fine mi sono convinto che sono due le ragioni confluenti in queste proposte assurde: l’ignoranza matematica e la fragilità di una cultura illuministica e democratica ormai agli sgoccioli. Partiamo della prima. Gli algoritmi di Facebook, anzi gli algoritmi in genere. Vi do un consiglio: quando i vostri occhi cadono su articolo scritto da un giornalista che parla degli algoritmi come fossero vivi e intelligenti, non finite neppure di leggere. È bullshit. Vi rivelo un segreto che ormai dovreste aver capito da soli frequentando i social network: gli algoritmi, così come tutti i software, sono soltanto dei cretini velocissimi, pura potenza selettiva computazionale. Facebook fatica a non cancellare la più famosa fotografia del secondo Novecento (quella della bambina vietnamita) confondendola con altro, e c’è gente che pretende di lasciarvi chiavi in mano la decisione vero -falso giusto-sbagliato corretto-scorretto. I preconcetti e gli obiettivi considerati urgenti convincono le persone meno preparate a forzare la materia viva della Rete senza neanche capire quanto si rendono ridicoli.

La seconda terribile verità corollario della prima: pronti? Agli algoritmi non frega niente dei nostri problemi, non essendo intelligenti, niente di sintetico sulla terra lo è; anche le macchine più sofisticate sono poco più che registratori, le macchine a deep learning imparano imitando, non creando, né prendendo decisioni paragonabili anche solo lontanamente alle nostre capacità cognitive; sono fatte per stupirci, sembrano umane (lo sembreranno sempre di più), ma non lo sono. Volete cancellare, seduta stante, in anticipo sulla pubblicazione, chi dice “viva Hitler”?. Dovete accettare che il sistema cancelli a caso anche chi dice “abbasso” e con loro un bellissimo saggio su Hitler da qualche parte del web. Gi algoritmi di ricerca vogliono soltanto che si dica loro un NOT_TO. Se pensate si possa evitare, avete confuso i film di fantascienza con la realtà. Non siamo ancora in grado di farlo senza combinare disastri. Inoltre, è pure filosoficamente sbagliato, poiché la libertà di espressione è essenzialmente libertà di dire la cosa “sbagliata” assumendosene eventualmente la responsabilità.

Io non difendo le aziende multimiliardarie della California, e sono d’accordo con Evgeny Morozov che sottolinea come sia necessario scollegare l’economia dei clic al corretto svolgersi dei processi decisionali, nei media come nella nostra vita, ma appunto per questo vanno prese tutte le soluzioni sentite in queste settimane e cestinate perché se si pretende di monitorare il web preventivamente o creando deterrenti si finisce per delegare queste decisioni proprio a quei cretini velocissimi e non ai cittadini. No, molto meglio, come hanno spiegato con pazienza quei pochi che hanno mantenuto la calma e un atteggiamento complessivo, olistico (leggete Fabio Chiusi, Juan Carlos de Martin, Luca Sofri), puntare sulle pratiche e su un mix di corresponsabilità e di digital literacy. Se abbiamo capito che non sarebbe accettabile avere un habitat Internet con milioni di casi come quello della foto vietnamita in nome di un equivocato peso (sovrastimato) dato al rumore di fondo, possiamo passare al problema culturale.

Non so a voi, ma a me sembra che stiamo accelerando verso la crisi definitiva dei valori illuministici che sono durati due secoli e mezzo, compresi quelli della democrazia classicamente intesa. Sembra davvero che alla gran parte della gente non freghi niente della libertà, figurarsi dunque quanto mi dovrebbe preoccupare l’indifferenza verso una supposta verità. Le persone mostrano di avere poca attenzione ai contenuti informativi ben curati e di fronte a falsi smentiti mantengono la loro opinione “di conforto”. Tutto vero e anche piuttosto noto. Tuttavia per me è molto più grave la spiccata tendenza a svendere la libertà di espressione. Si prega di essere controllati anche se in tutti i sondaggi potete scommettere che la libertà sarà al primo posto dei valori (pensano che sia la risposta “giusta” da dare). Mi chiedo: e se il nostro mestiere di giornalisti fosse nativamente insensato, magari una parentesi anomala derivante dal secolo dei lumi, perciò morente? A questo punto Internet non avrebbe altra colpa/merito che l’averci rivelato a noi stessi, come spesso racconta il filosofo Maurizio Ferraris a proposito della tecnologia.

Se alle persone a cui dovrei dire “la verità”non frega nulla perché sono tutte troppo focalizzate a cercare conferme alle loro opinioni precostituite, maturate nell’ambiente educativo della famiglia e nelle esperienze primarie di vita (che la disintermediazione di Internet ha posto al vertice della piramide quando prima erano alla base), e se ciò che intellettualmente invece spesso snobbiamo interessa tantissimo alle persone per le quali scriviamo, alle quali andrebbe indirizzata la nostra attenzione se non fosse che il livello di studio necessario per fare bene il giornalista scava un solco fra te e quelle stesse persone e i loro interessi, che mestiere faccio?

Proprio il troppo citato Orwell diceva che l’essenza della libertà di stampa è “il diritto di dire alla gente ciò che non vuol sentirsi dire”. Scriviamo per un diritto che non è realmente esigito da nessuno tranne che da noi fornitori, invece che dai “clienti”. Un bug unico tra tutti i mestieri del mondo. Diritto peraltro che i clienti – cioè i cittadini – in certe condizioni storiche mostrano di saper vendere senza pensieri per il piatto di lenticchie di qualche parola efficace nel breve periodo come “sicurezza”, “vittoria”, “benessere”, “patria”, “potere”, o altre. L’ultima alla moda è, appunto, bufala.

Nella gigantesca bufala sulle bufale ho visto la deprimente ignoranza delle classi dirigenti, l’inquietante indifferenza delle persone, la più che probabile irrilevanza del giornalismo. Che posso fare? Cosa posso suggerire? Una cosa sola: azzeriamo tutto e torniamo a parlarne tra persone serie, al prossimo Festival Internazionale del Giornalismo, ad esempio, dove senz’altro questo tema calerà su molti panel e dibattiti. In tanti saremo lì, dall’Italia e dal resto del mondo. C’è bisogno di parlarne in un altro modo, tra altre persone, per il bene di quanto resterà e sopravvivrà. Su quali basi? E chi lo sa. L’intelligenza artificiale? Il rifugio neo-benedettino in attesa di tempi migliori? Qualcosa nel mezzo?