Europa, c’è posta per te e viene da Londra.
Theresa May lo disse appena diventata premier e non lasciava ai britannici margini di interpretazione: “Brexit means Brexit”, richiamando tutti al fatto che stiamo parlando di una tautologia, nel senso di un’affermazione vera per definizione, quindi fondamentalmente priva di valore informativo. Brexit significa quel che dice, cioè uscire senza voltarsi indietro. E proprio oggi questa parola – Brexit appunto – diventa un “fatto” che accade nella storia dell’Europa a pochi giorni dal suo sessantesimo compleanno. L’Uk lascia l’UE nella sostanza e nella forma attraverso la lettera consegnata dall’ambasciatore Barrow a Donald Tusk e che notifica ufficialmente il processo di abbandono del Regno Unito all’Unione Europea che terminerà nel 2019. Dopo mesi di “sospensione” e di un robusto scontro fra Parlamento e Governo intorno alle dinamiche di attuazione del referendum popolare nel quale ha vinto il “leave”, si arriva ad un punto inedito nella storia europea dopo anni di allargamento e di annessione (sopratutto ad Est) di diversi nazioni. Si è infatti al primo caso di fuoriuscita di un paese chiave dello scacchiere geopolitico internazionale, quel Regno Unito che ritorna “isola”, separata non solo dai mari ma anche dalle interdipendenze continentali.
Il confronto fra gli analisti è acceso sugli effetti di questo “strappo” e si annunciano momenti di incertezza reciproca fra UE e UK principalmente in campo economico. Si sa che la Sterlina ha già perso all’incirca il 17% del suo valore nei confronti di euro e dollaro e si teme che l’economia di Londra abbia problemi e cresca di meno rispetto alle stime attuali. Tuttavia vi è un ragionamento a parti invertite con esiti diametralmente opposti asecondo i quali questa sorta di svalutazione della sterilna favorirà a lungo termine l’export dei prodotti made in UK.
Di sicuro la Gran Bretagna non farà parte del mercato unico, uscendo dall’Ue. Lo ha confermato Theresa May, sostenendo che si tratta di una opzione «incompatibile con la volontà popolare» manifestata nel referendum sulla Brexit di restituire al Regno il pieno controllo dei suoi confini e della sua sua sovranità. «L’Ue ci ha detto che non possiamo scegliere» cosa tenere e cosa no, e «noi rispettiamo» questo approccio. «Vogliamo – ha aggiunto – una Brexit ordinata per arrivare a un partenariato nuovo». Dura la replica di Corbyn: «Accettiamo l’esito del voto e andiamo avanti, ma con cautela». E qui sta un aspetto non secondario della politica che ci augura sia conseguenziale ai principi democratici che la strutturano. Come per l’elezione americana di Donald Trump – e nel caso italiano il referendum del 4 dicembre – non sono accettati relativismi rispetto al dato uscito dalle urne e in tal senso non concordo con quanto detto dall’ex premier italiano Enrico Letta ai microfoni di Rainews24 parlando di brexit vincitore per un soffio (ricordando il 52 per cento leave contro il 48% di remain).
https://twitter.com/eucopresident/status/847048551792291840
Quel che Theresa May chiama il “volere del popolo” espresso nel modo più democratico e pacifico, cioè la scheda di voto, è un principio che non si può maneggiare a seconda degli opportunismi del sistema o dell’elite del momento. Ci vuole un supremo rispetto delle urne, anche in momenti della storia quando una volontà popolare produce conseguenze anche in altri paesi. Semmai bisognerebbe da parte dell’establishment fare un serio esame di coscienza di come evitare ulteriori spaccature dentro i 27 paesi rimasti nella UE. E’ di pochi giorni l’ulteriore rifiuto da parte di Austria e Ungheria all’attuazione della direttiva che ricolloca i richiedenti asilo accolti in Italia e in Grecia, al netto delle falle organizzative del nostro paese sulla questione. Come mai non giunge ai presidenti di questi paesi una lettera di Tusk o Jean-Claude Juncker?
Anche in fatto di corrispondenza (e quindi di coerenza) i cugini britannici vanno al sodo senza giri di dichiarazioni.
Brexit means Brexit, and we’re going to make a success of it…Second, we need to unite our party and our country… And third, we need a bold new positive vision for the future of our country – a vision of a country that works not for the privileged few, but for every one of us.