La delusione piu’ cocente dopo un anno dalla Brexit, per chi si occupa di rischio, e’ che tutto e’ andato quasi come annunciato. Non e’ tornato un impero britannico, non sono tornate le colonie, tutte in fila a cercare di strappare un accordo commerciale al ribasso, inclusa l’America. Non ci sono stati grandi sommovimenti di capitale verso una terra liberata da chissa’ quale giogo. La realta’ e’ sotto gli occhi di tutti: azioni in sequenza di straordinario desiderio di preservazione del potere hanno reso il Regno Unito, ancora una volta, terra fertile per scontri sociali, di classe, di apparato, in una misura tale da diventare un vero laboratorio delle democrazie in divenire. Non esiste ritorno all’Impero.
Come non esiste ritorno ad un modello di sviluppo come ‘prima della crisi’. La coincidenza fra collasso finanziario e espansione di nuove tecnologie, soprattutto quelle che facilitano l’interazione fra persone, ha generato un mondo nuovo, sempre piu’ diverso da qualsiasi immaginazione. E, il futuro, in questa situazione, non esiste – come dice sempre una persona a me cara. Il futuro non esiste, si scrive ogni giorno, con fatica, misura. Anche se ci si accanisce, a livello istituzionale, professionale, ma anche personale, a voler pensare che tutto si possa sistemare, che si possa tornare a quel bel mondo antico, originale. A quel giardino dell’eden in cui tutti vivevano in armonia. La panchina degli innamorati di Peynet.
Invece, il futuro avanza, e manco sorride, a volte. E ci imporra’ scelte sempre piu’ difficili, perche’ non si trattera’quali banche faranno fusioni, non ci sara’, forse, piu’ bisogno di banche. Non ci sara’ bisogno di Brexit, perche’ tutto quello che conta di una societa’ sara’ in un luogo apolide e senza controllo nazionale, la ‘nuvola’, The Cloud. Tecnologie nuove impongono la frammentazione, delle informazioni, delle risorse. Viviamo in epoche dove tutto diventa poliedrico, poliamorale, frammentizato. Eppure, ancora, ci ostiniamo a voler vivere come se tutto questo non stesse accadendo. Ci ostiniamo a pensare che il tempo funzioni come un ciclo, un aragosta. Invece, paghiamo le conseguenze dell’accumulo delle nostre azioni, delle nostre dimenticanze o di come siamo diventati altro, nel tempo. Lentamente. Con pigrizia. Siamo diventati una societa’ di illusi, o di protesi, al ritorno al futuro.
Con l’avvicinare dei 50 anni, con tante cose passate nella mia vita, e con un riconoscimento di una forma di sclerosi dell’anima che mi ha impedito di godermi i passaggi importanti, ho deciso che bisogna imparare a vivere nel ritmo e nel flusso delle cose. Anzi, lo sto ancora imparando. Perche’ sono sempre tentato dal poter aggiustare tutto, dal poter vivere e convivere con una immagina mia delle cose che non corrisponde al reale. So che siete tanti come me, la fuori. Con questa idea che tutto si deve aggiustare alla propria idea. Ma la sfida e’ piu’ grande, perche’ quello che siamo domani non dipende dalla nostra capacita’ di affabulare gli altri, ma da quel buco nero che si chiama ‘io, fra cinque minuti’, ‘fra due anni’, ‘fra venti anni’. E, ora, mai come prima. Perche’ siamo cambiati noi, i social media, la velocita’, ci hanno ridotto la capacita’ di analisi, per lasciarci in preda al momento che vorremo traslare, trascinare nel ‘per sempre’.
Alla veneranda eta’di 46 anni, ho capito, in maniera improvvisa, che a questo riformattarsi delle nostalgie, non ci sto piu’. Vale per tutto, per le aspettative sulla famiglia, sul lavoro, sulla societa’, sulla politica. Non posso e non possiamo tollerare che tutto quello che e’ accaduto in questi anni, decenni, la strepitosa unicita’ dei cambiamenti degli ultimi due anni, ci indichino solo una strada di ritorno al ‘mondo prima di’.
Invece, ho posizionato due belle colonne d’Ercole davanti e ogni giorno provero’, dovro’ provare, saro’ costretto a provare per contratto con me stesso, a spostarmi nell’ignoto. Che e’ come il vostro futuro, quella cosa che si cela dietro allo specchio che vi imponete di guardare.
Le colonne d’Ercole, a Gibilterra, dove vinse il Bremain, un anno fa. Ma, si sa, Ulisse non ci e’ mai tornato. Perche’ la storia, il mondo, le speranze, si sono tutte spostate altrove. Giustamente.
‘Come ho fatto a trovarmi qui? Cosa ci faccio? Mi sento Baudelaire alla Casa bianca o Trump in Africa. O forse tutti e due. Come ho fatto a trovarmi qui, ogni cellula del corpo completamente diversa, un altro me. Forse, trasliamo, diventiamo altro. Senza accorgercene. Sono gli altri a dircelo, a farci notare nasi storti, abitudini stolte, mancanze e pochezze. Improvvisamente, ce rendiamo conto. Gli intelligenti, cambiano. Anche se troppo tardi. Non ritornano, cambiano. Non cercano di ricostruire, ma fanno crollare tutto per poi riedificarlo. Comunque, ancora mica mi capacito come ci sono finito, qui, sospeso nel vuoto. Dove ogni passo che posso fare, e’ anche un volo. E solo recentemente ho perso la paura di farlo. Con il senso di timore e tremore di Erica Jong a Woodstock’
KJ Okker – Baudelaire a Washington
Soundtrack: Dream Syndicate – How did I get here