MillennialsGenerazione affittacamere

Sono rientrato a vivere in provincia, nella vera provincia italiana, da poco meno di un anno. L’avevo lasciata una decina d’anni fa, in un contesto socio-economico totalmente diverso: non c’era sta...

Sono rientrato a vivere in provincia, nella vera provincia italiana, da poco meno di un anno. L’avevo lasciata una decina d’anni fa, in un contesto socio-economico totalmente diverso: non c’era stata ancora la crisi dei mutui subprime; non esisteva ancora il Movimento 5 Stelle; Facebook in Italia – e nella provincia italiana soprattutto – era ancora agli albori. Questo per quanto riguarda la Storia.

Per quanto riguarda invece la mia, di storia, con una “s” infinitamente più minuscola, la mia visione del mondo era ancora polarizzata più verso il mondo universitario che quello lavorativo. Gli strumenti con cui percepivo il mondo erano principalmente accademici, non certo ancora coscienti di un problema occupazionale. Il primo problema occupazionale che avvertii con urgenza fu il tentare di capire cosa volesse dire, davvero, alla fine, lavorare. In sintesi: i miei ricettori verso il mondo erano perlopiù binari. Eppure, seppur con tutti i distinguo del caso, i cambiamenti che ho esperito nella realtà attorno a me, in questo paio di lustri, e che continuo a vedere, sono enormi. E purtroppo quasi tutti negativi.

Partiamo dalla larga scala: dai dati. Ne cito tre, per partire:

  1. Il reddito medio degli italiani è poco più di 20mila euro. È esattamente come percepite, in tutti i sensi: poco. Molto poco. In Europa, siamo molto indietro dai migliori, e ci teniamo dietro solo i paesi dell’est e il Portogallo. Ovviamente, la situazione varia molto in funzione del sesso, dell’età e dell’ubicazione geografica, con la solita Italia a due velocità, e una questione meridionale ancora da secoli irrisolta. Ma la media del pollo di Trilussa ci permette intatto di avere un primo spaccato, tagliato con l’accetta, piuttosto realistico della gravità della situazione.
  2. Siamo tra i cittadini più ricchi del mondo. Ok, la frase può risultare choccante scritta così, ma è la verità: la ricchezza privata media degli italiani si attesta intorno ai 190mila euro ed è tra le più alte al mondo. Questo perché siamo un popolo di santi, poeti e risparmiatori, certo, ma anche perché la nostra popolazione è la seconda più anziana sulla faccia della terra (ci supera solo il Giappone), e quindi il punto 3 non impatta (ancora) così tanto.
  3. Lo scarso reddito medio è dovuto a una serie di sotto fattori, che collaborano tutti a dipingere un quadro dell’occupazione giovanile dalle tinte davvero fosche. I giovani guadagnano in media il 36% in meno dei padri (mal comune condiviso con metà Europa: è il contrario invece in Cina); i neolaureati prendono il 15% in meno di 10 anni fa; il tasso di occupazione degli under 30 è fermo al 29,7%.

La combo dei punti 1 e 3 è letale, specie se si considera che, secondo le stime della Fondazione Bruno Visentini, il divario generazionale è destinato a raddoppiare entro il 2030. Il punto 2 è il palliativo. Se non siamo ancora a livello Grecia, insomma, è perché le nuove generazioni stanno attingendo al patrimonio familiare per mantenere un livello di vita al di sopra delle loro potenzialità. Un tesoretto che ci ha permesso di evitare i debiti d’onore americani per lo studio universitario; che ci ha viziati, forse rammolliti. Questo tesoretto, però, è inevitabilmente destinato a erodersi. Il tasso a cui questo fenomeno avverrà determinerà la durata e l’efficacia del palliativo. Ma se anche le retribuzioni delle professioni più qualificate tra i giovani sono di un 20-30% più basse rispetto al resto d’Europa (un ingegnere italiano guadagna in media 38,5 mila euro l’anno, circa 10mila euro in meno dei suoi colleghi in altri Paesi europei) è oggettivamente difficile essere ottimisti al riguardo.

Lo è anche soggettivamente, dalla mia finestra non privilegiata sul contesto provinciale italiano, in una delle tante città-rammendo tra una regione e l’altra: La Spezia. Qui, la maggior parte dei miei compagni di scuola e di università di maggior talento e prospettiva – chi poteva, insomma – è emigrata: chi all’estero, chi almeno in un’altra regione – spesso la Lombardia, ça va sans dire. Chi è rimasto si divide essenzialmente in due grandi categorie:

1) chi ha ereditato una casa di famiglia da nonni o genitori;

2) chi no.

Tra questi ultimi, la stragrande maggioranza non ha un lavoro, o ne ha di saltuari, malpagati, per lo più in nero. Tra i primi, in tantissimi hanno sfruttato la vicinanza a un’area fortemente turistica come le Cinque Terre (sono molti i paesi in Italia che possono contare su bellezze artistiche o paesaggistiche di richiamo) per mettere a frutto una rendita di capitale e trasformarla in un mestiere.

È la generazione affittacamere, quella che ha capito che la startup più solida è fatta di mattoni, e spesso ha a che fare con un rogito. Quella generazione da cui dovremo un giorno estrarre la nuova classe dirigente, quella che dovrà esprimere pensiero critico, capacità organica di visione d’insieme. Quella che non ha scelto un mestiere, ma ha subito la scelta di un sistema economico incapace di concedere altre possibilità, quella che ha smesso di credere alla pensione, ma la pagherà a chi ha guadagnato più di lei per svolgere mansioni simili. Quella, soprattutto, che dimensionerà i suoi desideri su una scala sempre più claustrofobica, sempre più futile, seguendo il mimetismo della ragione girardiana. È una generazione che non ha più nemmeno una sana fame di strutturazione del tempo: il suo tempo è cadenzato da lenzuola da cambiare, ospiti da ricevere, recensioni da monitorare, notifiche di Airbnb, Blablacar, Whatsapp, Instagram. Un meccanismo che scommette sul ribasso come gli azionisti giocano “short” su certi titoli: un piccolo cabotaggio che va interrotto, e subito, perché sta ammorbando questo Paese in campi che vanno ben oltre quello, scontato, dell’economia.

FILIPPO LUBRANO