Faust e il GovernatoreLe occasioni perdute dall’Italia: la cessione della Divisione Elettronica dell’Olivetti alla General Electric nel 1965

Quando nei primi anni Sessanta l'Italia viveva il suo "miracolo economico", si sono gettate al vento alcune opportunità, che col senno di poi sono divenute "occasioni perdute". Sono tre gli eventi ...

Quando nei primi anni Sessanta l’Italia viveva il suo “miracolo economico”, si sono gettate al vento alcune opportunità, che col senno di poi sono divenute “occasioni perdute”.
Sono tre gli eventi decisivi di quegli anni:
1) L’omicidio da parte della mafia di Enrico Mattei, fondatore dell’ENI (27 ottobre 1962).
2) L’attacco giudiziario al presidente del Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare (Cnen), Felice Ippolito;
3) La morte di Adriano Olivetti nel febbraio 1960. L’imprenditore di Ivrea, vero visionario, aveva appena acquisito l’americana Underwood, che si dimostrerà un bagno di sangue. La contabilità direzionale in Olivetti era certamente un punto debole. Si racconta che si tenessero i conti per cassa e non per competenza, impedendo di capire per tempo se la società facesse margini o perdesse soldi.
La famiglia, costretta a numerosi aumenti di capitale, nel 1962 (dopo la irreparabile morte di Mario Tchou, testa pensante nell’elettronica) veniva invitata da Roberto Olivetti a sostenere un progetto dettagliato, il cui obiettivo strategico era la definizione di un nuovo assetto della governance d’impresa. Nel bel volume di Nerio Nesi – Le passioni degli Olivetti (Nino Aragno editore, 2017) si entra nel vivo delle vicende.
Roberto avviò con Raffaele Mattioli, presidente della Banca Commerciale Italiana, concrete trattative per trovare un compratore per il 50% delle azioni, che la famiglia aveva messo in pegno. Ma la famiglia si oppose e le trattative caddero, per timore che Mattioli venisse nominato fiduciario. Mal gliene incolse. Gianluigi Gabetti ricorda: “Dovetti prendere atto di una situazione compromessa in buona misura dalla concorrenza tra gli azionisti (cioè la Famiglia) per il controllo dell’azienda”.

La conseguenza dei dissidi familiari fu l’accettazione di un “gruppo di intervento”, guidato da Bruno Visentini, che malauguratamente decise di non puntare sul settore dell’elettronica, su cui Roberto Olivetti puntava pancia a terra.

Roberto Olivetti e Mario Tchou

La risposta di Vittorio Valletta – capo indiscusso della Fiat – nella relazione al bilancio Fiat del 30 aprile 1964 non ammette repliche: «La società di Ivrea è strutturalmente solida e potrà superaare, senza grosse difficoltà, il momento critico. Sul suo futuro pende però una minaccia, un neo da estirpare: l’essersi inserita nel settore elettronico per il quale occorrono investimenti che nessuna azienda italiana potrà affrontare».

Michele Mezza – nel pregevole volume “Avevamo la luna” (Donzelli, 2015) commenta:«Una lapide più che un’opinione per il futuro della Olivetti. Valletta anche semanticamente sceglie i vocaboli in modo da dare tutti i messaggi necessari: nell’elettronica l’Olivetti si è “inserita”, intromessa, indebitamente mescolata con i più grandi. Questo è il peccato originale che bisogna sanare».

Giorgio Fuà (fondatore dell’Ufficio Studi dell’Olivetti, e successivamente collaboratore di Mattei all’ENI) scrisse: “Roberto fu messo in disparte da Visentini in malo modo. Egli puntava sull’informatica in cui vedeva la via del futuro. Visentini non lo capì e stroncò tutto. Tagliò il ramo verde”. Elserino Piol nel 1968 disse a Visentini: “Oggi la fine delle macchine a logica meccanica è fin troppo evidente: la meccanica sarà confinata a funzioni periferiche”.

Mentre Nerio Nesi critica lo Stato, incapace di sostituirsi, quando necessario, al ruolo delle grandi (sic!) famiglie proprietarie, lo storicoBeppe Berta, nel volume “Che fine ha fatto il capitalismo italiano?” è molto più realista: le storie di Olivetti, Mattei e Ippolito“erano storie imprenditoriali di eccezione, nel significato preciso della parola. Erano eccezionali rispetto alla imprenditorialità diffusa. Le loro esperienze non potevano dar luogo a modelli replicabili. Quelle imprese era state anomale, a dir poco, anche come rappresentanti di un capitalismo a cui non avevano mai appartenuto fino in fondo”.
Il capitalismo dinastico ha fallito, le grandi imprese sono scomparse, rimangono solo le grandi imprese pubbliche. C’è poco da fare. Il capitalismo pubblico ha fatto meglio del privato, per quanto riguarda le grandi imprese. Non ci rimane che il quarto capitalismo, così ben raccontato da Giorgio Fuà, e successivamente da Giacomo Beccattini. E ora da Fulvio Coltorti, già direttore dal 1973 al 2012 dell’Area Studi di Mediobanca (ASM).

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