Mai con i 5 Stelle. Provino a governare loro, con l’altro vincitore delle elezioni, la Lega. La linea dettata da Matteo Renzi all’indomani della disfatta elettorale è chiara. Mai!
Epperò nel Pd comincia a stagliarsi un’area dialogante che, in vista delle imminenti consultazioni di Mattarella, vorrebbe far uscire dall’angolo un partito che la sua, invece, avrebbe ancora da dirla, ma che in occasione della scelta dei presidenti di Camera e Senato «non ha toccato palla», per scelta tattica. Dario Franceschini – che peraltro si dice avesse già tentato una sortita subito dopo il 4 marzo – sta tessendo la sua tela. A lungo termine, se è vero che il ministro della cultura punti al 2022, quando scadrà il mandato di Mattarella.
Ma per capire cosa bolla nel pentolone del Nazareno – e di quale sia la partita «solita» all’interno di un partito che ha avuto la responsabilità della guida del paese per cinque anni – bisogna leggere l’illuminante intervista ad Andrea Orlando oggi sul Corriere della sera. «La salita al Colle – dice – è la prima occasione nella quale il Pd può parlare agli italiani e dire che tipo di opposizione vogliamo fare alla eventuale nascita di un governo giallo-verde».
La chiave di tutto – dei futuri, dei presenti, ma soprattutto dei passati rapporti di forza all’interno del Pd – sta nell’affermazione che segue: «se è ineluttabile (fare opposizione ndr.), dobbiamo decidere se gli facciamo una opposizione da destra o da sinistra». Che uno si chiede: ma che opposizione vuoi fare a un governo con – dentro – Salvini e FdI? Un governo in cui il detentore della golden share sono i 5 Stelle che hanno un’idea della rappresentanza che non sembra proprio in linea con quella di una sinistra moderna e liberaldemocratica? Perché è questa la sinistra che vuole il Pd, giusto?
Orlando, per giustificare la linea aperturista, propone – da politico navigato – la distinzione tra «dialogo» e «alleanza» con i pentastellati (cosa vuol dire «dialogo»: non sfiducia come alla fine degli anni Settanta?), ma ho l’impressione che la necessità di parlare con di Maio, più che un servizio al paese, sia funzionale alla riproposizione del vecchio schema che ha azzoppato il segretario uscente.
Nelle parole di Orlando torna in superficie il fiume carsico della lotta interna che ha impedito a Renzi – per colpa anche di Renzi e della sua fretta, sia chiaro – di sfruttare appieno un’occasione forse irripetibile per riformare un paese ripiombato nel pieno della Prima Repubblica. Quando Orlando dice – oggi – che il Pd deve fare «opposizione di sinistra» continua a pensare che – ieri – Renzi non lo sia stato abbastanza e che – domani – abbia intenzione di portare il partito su posizioni che lo saranno sempre meno.
«Il rischio più grande per il Pd – ecco il punto, spiegato bene – è smarrire la sua funzione. Non abbiamo molto tempo e io vedo due strade. Attendere l’eventualità che Forza Italia sia dilaniata dall’Opa di Salvini e capitalizzare l’uscita di parte di quell’elettorato, oppure provare a recuperare i milioni di voti popolari andati a Lega e 5 Stelle».
Qua si pensa che il voto della sinistra riformista – quello cui il Pd deve puntare – non sia andato a Lega e 5 Stelle, ma che sia rimasto impiastricciato nelle beghe interne di un partito che non ha ancora avuto il coraggio di prendere il mare aperto. Mare in cui, a breve, ci saranno anche quei pezzi di centro che con Salvini non ci vogliono stare.
Ecco perché la partita che si sta giocando nel Pd non è solo «tattica», ma riguarda il futuro della sinistra.
(www.attentialcane.org)