La BrumaSiamo un paese di Portaborse. La politica del merito non esiste

Agli inizi di marzo campeggiava su diversi siti l’annuncio: “M5S cerca giornalisti per team comunicazione” con tanto di requisiti e indirizzo e-mail al quale inviare la propria candidatura. Addio ...

Agli inizi di marzo campeggiava su diversi siti l’annuncio: “M5S cerca giornalisti per team comunicazione” con tanto di requisiti e indirizzo e-mail al quale inviare la propria candidatura.

Addio portaborse, staff di segreteria e addetti stampa scelti perché “sai, devo fare un favore a un amico” o perché “me lo impone il partito”?

Per la Treccani il portaborse è “chi si presta, in genere allo scopo di ottenere in cambio favori o vantaggi, a lavorare per personaggi autorevoli o influenti, con un atteggiamento esageratamente ossequioso e servile(identificato comunemente dal gesto di portar loro la borsa)”.

Dopo aver raccolto informazioni circa il “Casting Grillino” e aver scoperto che i colloqui erano di gruppo, mi sono soffermata sulle domande che venivano poste agli aspiranti collaboratori del Movimento 5 Stelle:

  • Sapresti dirmi come si modifica una norma costituzionale?
  • Conosci la differenza tra deficit e debito?
  • Sai cosa significa non superare il tetto del 3% e a cosa si riferisce?
  • Cos’è il PIL e cosa comprende?
  • Conosci la proposta di legge sugli ecoreati del Movimento 5 Stelle?

Domande lecite, legittime e – oserei dire – necessarie. Perché è proprio da una conoscenza giuridica ed economico-politica che si deve partire per poter comunicare la complessità delle istituzioni.

Quelle rare volte in cui mi hanno dato della “portaborse” ho risposto con fare stizzito che ero un tecnico, avulso dai sistemi di partito e che no, non militavo, né tantomeno ero tesserata. Il portaborse, inoltre, lo si riconosce subito: politicizzato, superbo e guardingo, sguardo tipico di chi crede di avere il potere in mano e di essere onnisciente, riuscirà ben presto a dimostrare la sua ignoranza e la sua totale inadeguatezza per il ruolo che ricopre. Un tipico esempio di Yes Man che serve tanto a innalzare, quanto a distruggere il politico per il quale lavora.

Ho pensato che con l’avvento della terza Repubblica qualcosa stesse cambiando. Che si volesse istituzionalizzare il tecnico della politica, ma i dubbi permangono.

Perché, se esiste una disciplina con tanto di esperti, docenti e corsi universitari, in Italia è così difficile – al di fuori di quelle poche e serie agenzie – occuparsi di comunicazione politica o di politiche pubbliche senza sottomettersi e asservirsi a un “uomo delle istituzioni” che vorrà solo sentirsi adulare?

E, perché se si è lavorato per un esponente politico di un determinato partito, non si può svolgere il medesimo lavoro per uno schieramento opposto?

La teoria dell’intellettuale organico gramsciano sembra essere fin troppo cara agli italiani: comunicare e lavorare per ciò che si crede, scegliere, incanalarsi, etichettarsi e, infine, immolarsi.

Ma se è vero – a detta di Bauman – che la postmodernità è caratterizzata da uno stato liquido dove nulla è nitido e definito, ciò sembra non valere per la comunicazione politica che rimane ancorata ai vecchi sistemi.

Il cittadino, inoltre, si sa, non è né informato né tantomeno attivo e quando rifiuta come fonti la famiglia, gli amici e i colleghi, si informa limitatamente attraverso scorciatoie che devono essere impacchettate ad arte dagli specialisti della comunicazione.

Il punto è, che ancora oggi, le università italiane formano esperti di politiche pubbliche e di comunicazione politica che difficilmente saranno ricollocabili solo per le proprie competenze e che si ritroveranno a dire: “Forse aveva ragione Poletti: è più utile giocare a calcetto che inviare cv

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