La Corte costituzionale ha posto la parola fine alla lunga querelle sulla disponibilità in rete dei dati patrimoniali dei dirigenti pubblici: con una recentissima sentenza la Corte ha, infatti, dichiarato costituzionalmente illegittima la disposizione che estendeva a tutti i dirigenti pubblici gli stessi obblighi di pubblicazione previsti per i titolari di incarichi politici, con particolare riferimento ai dati patrimoniali ricavabili dalla dichiarazione dei redditi e da apposite attestazioni sui diritti reali sui beni immobili e mobili iscritti in pubblici registri, sulle azioni di società e sulle quote di partecipazione a società, estendendo tale notizia anche ai beni posseduti dal coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado. Avverso tale obbligo avevano dato battaglia alcuni dirigenti del Garante per la Privacy e UNADIS, il sindacato nazionale dei dirigenti pubblici, contestando, in soldoni, che l’assunto non dichiarato della norma, introdotta nel quadro della attuazione del quadro FOIA (o accessibilità totale degli interna corporis della macchina pubblica), fosse quello che il burocrate è potenzialmente corrotto e che, conseguentemente, spettasse a lui dimostrare come ha avuto quella casa, ottenuto quella macchina, acquistato quel terreno. Mariuoli a prescindere. La logica che aveva spinto il Legislatore ad introdurre la noma contestata, mettendo sullo stesso piano politici e burocrati, era chiara: poiché l’impegno dichiarato è quello della lotta alla corruzione, il cui principale puntello è la trasparenza assoluta, occorreva che il cittadino sapesse, in qualsiasi momento, lo stato della situazione reddituale e patrimoniale di chi operasse, in determinate posizioni, per la macchina pubblica, verificando l’eventuale presenza di guadagni sproporzionati e potenzialmente illeciti rispetto alla retribuzione. Pure a dispetto del fatto che quei dati venivano e vengono comunicati annualmente dal singolo alla propria amministrazione, che li custodisce, pronti alla bisogna. Ebbene, aldilà dello spirito orwelliano che ha guidato gli ideatori della disposizione, si potrebbe obiettare, da chiunque sia dotato di senso comune, che il malversatore di turno ben difficilmente metterebbe a disposizione nel proprio 730 la Ferrari o il villone illecitamente acquisiti. Buon senso a parte, ci ha pensato la Corte a mettere in fila ben più solidi argomenti demolitori della norma, ritenendo, intanto, che la pubblicazione di quantità massicce di dati senza chiara distinzione tra ruolo, responsabilità e carica ricoperta dei dirigenti non agevola la trasparenza, anche a fini anticorruttivi, ma rischia, anzi, di generare “opacità per confusione” oltre che di stimolare forme di ricerca tendenti unicamente a soddisfare mere curiosità: voyeurismo di cittadinanza, insomma.
Il punto di partenza dei giudici è la manifesta irragionevolezza del bilanciamento operato dalla legge tra due diritti: la riservatezza dei dati personali da un lato, il libero accesso ai dati e alle informazioni detenuti dalle pubbliche amministrazioni da parte del cittadino dall’altro. Nell’estendere gli obblighi di pubblicazione dei dati patrimoniali alla totalità dei circa 140.000 dirigenti pubblici (e, se consenzienti, ai loro coniugi e parenti entro il secondo grado: moltiplichiamo, per difetto, per tre), il Parlamento ha così violato il principio di proporzionalità, di cui all’articolo 3 della Costituzione, non individuando una modalità che meno sacrifichi i due diritti a confronto. Se è vero, dice la Corte, che la strada da percorrere è quella della trasformazione della PA in una “casa di vetro”, l’accesso alle informazioni deve però essere legato all’esercizio di un controllo sul corretto perseguimento delle funzioni istituzionali e su un impiego virtuoso delle risorse pubbliche. In ciò risiede, infatti, la pubblicità dei compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica nonché per le spese relative ai viaggi di servizio e alle missioni pagate con fondi pubblici, il cui obbligo di pubblicazione resta naturalmente in piedi. Ma il punto vero è un altro. La pubblicazione dei dati patrimoniali non può essere sempre giustificata, a differenza dagli incarichi di natura politica, dalla necessità di render conto ai cittadini di ogni aspetto della propria condizione economica e sociale allo scopo di mantenere saldo, durante il mandato, il rapporto di fiducia su cui si è formato il consenso popolare che ha condotto alla elezione. È questo l’argomento fondamentale della pronuncia della Consulta, dato che “i destinatari originari di questi obblighi di trasparenza sono titolari di incarichi che trovano la loro giustificazione ultima nel consenso popolare, ciò che spiega la ratio di tali obblighi: consentire ai cittadini di verificare se i componenti degli organi di rappresentanza politica e di governo di livello statale, regionale e locale, a partire dal momento dell’assunzione della carica, beneficino di incrementi reddituali e patrimoniali, anche per il tramite del coniuge o dei parenti stretti, e se tali incrementi siano coerenti rispetto alle remunerazioni percepite per i vari incarichi”. Insomma, una cosa è la politica, la cui legittimazione nasce dal voto, un’altra sono i dirigenti, burocrati di professione, che hanno superato un concorso pubblico.
Esiste, tuttavia, secondo la Corte, un livello di tutela minima delle esigenze di trasparenza amministrativa che impedisce che si proceda alla cancellazione sic et simpliciter della norma, la quale, invece, può applicarsi ai dirigenti apicali delle amministrazioni statali (direttori generali, segretari generali e capi dipartimento previsti dall’art. 19, co. 3 e 4, del decreto legislativo n. 165 del 2001), per i quali sono ragionevoli, per i giudici, gli obblighi di pubblicazione imposti dalla disposizione esaminata. Tali dirigenti apicali, infatti, non solo sono in numero notevolmente ridotto rispetto al totale dei dirigenti pubblici, ma sono titolari di compiti particolarmente significativi, oltre che di nomina sostanzialmente politica: si rende manifesta, dicono i giudici a tale proposito, lo svolgimento di attività di collegamento con gli organi di decisione politica, con i quali si presuppone l’esistenza di un rapporto fiduciario. Questa è la parte che meno convince della decisione, sia perché, per legge, la qualifica dirigenziale è unica, sebbene articolata, in due fasce, sia perché, essendo anche gli apicali dirigenti di ruolo, non si comprende, in principio, la loro esclusione dalla tutela della riservatezza. Colpisce anche l’assimilazione di segretari generali e capi dipartimento, soggetti a meccanismo di spolis system, coi dirigenti di prima fascia, che ne sono, invece, esclusi. Avrebbe avuto maggior rilievo, probabilmente, riservare tale eccezione ai soli apicali in quota esterna, di nomina politica per eccellenza, che la legge individua nel 10 per cento della dotazione organica: in quel caso, infatti, appare vieppiù determinante l’attrazione nella sfera della politica, trattandosi di scelta squisitamente intuitu personae rivolta a persona estranea alla pubblica amministrazione. Spetterà ora al Parlamento ridisegnare, individuando le opportune diversificazioni e per tutte le pubbliche amministrazioni, il quadro complessivo dei destinatari degli obblighi di trasparenza e delle modalità con cui questi devono essere attuati, nel rispetto del principio di proporzionalità che tuteli la riservatezza degli interessati. Qui, intanto, la conclusione è una, e una sola: ve l’avevamo detto.