Apparteniamo ad un’epoca che deve ancora accadere, Orazio. Apparteniamo ad un’etica nuova, liquida, libera, che ancora non esiste, non si è manifestata. Ci siamo illusi che fossimo adatti a questi tempi. O che i tempi sconsiderati e scombinati si potessero riordinare in un ritmo, magari anche in levare. E, probabilmente, quella sensazione di sentirsi prontissimi, adatti, patentati per un mondo che ancora non esiste la possiamo chiamare speranza.
La stessa speranza che raccontavano i nostri nonni, i nonni di chi oggi ha quasi 50 anni, cioè persone nate appena prima o dopo la Prima Guerra Mondiale. Persone che avevano visto i reduci impazzire per le memorie del fronte e poi il fascismo nascere dentro i gangli delle crisi economiche, dei territorialismi, della grande diseguaglianza sociale. Motore di cambiamento, e di stravolgimento. L’Italia delle emigrazioni di massa, della prima morte di Dio, dei racconti dalle trincee dolomitiche e di battaglie per suoli irredenti. Quelle ferite sul volto dei soldati e quei territori fra Francia e Belgio ancora oggi avvelenati dai residuati delle armi a gas in una maniera tale che nessun essere umano, animale o pianta potranno crescersi per 700 anni. Le zone rosse, le chiamarono. Villaggi distrutti, trincee abbandonate come relitti spettrali, ma visibili solo a chi si avventura a rischio e pericolo, in zone dove le falde acquifere sono contaminate con cianuro e altre sostanze chimiche. Pozzi avvelenati e sepolcri imbiancati.
Zone rosse in periodi neri. La densità del nero, della frontiera dove la luce arranca, dove la luce disegna coni perfetti. La densità del futuro che ancora non ci appartiene, ma che sappiamo esiste. Certo che esiste, dico alle mie figlie con il pensiero, quando parliamo dell’odio e dell’idiozia che leggiamo in giro, quando cerco di razionalizzare il dolore che ci arriva dai televisori, dai social media. Non apparteniamo a questo tempo di pantaloni di felpa e di approssimazione. Apparteniamo agli angoli dove le tenebre nascondono spiragli di luce, dove le mille parole cattive circolano e nell’eco che generano, diventano un suono, una sostanza di incubi che poi, sappiamo, esigiamo, svanirà ancora. E torneranno le lepri e gli alberi da frutto nelle zone rosse. Torneranno le persone a camminare ed a chiedersi cosa sia successo e perché’ sia potuto succedere ancora. Se lo permetteremo. Se ci permetteremo di considerare la nostra preparazione per un’era dell’Acquario una scusa per non occuparsi delle cose in questi frangenti, in questi momenti dove ogni posizione politica deve svisare sul violento, sull’arcano, sul confronto. Sulle parole forti.
E’ da questa sostanza nera e densa che dobbiamo cominciare a parlare, a confrontarci. Perché’ i tempi a cui siamo adatti sono tempi per tutti, per chi non riesce a solcare questi anni pantagruelici e garantruisti. Anni di abbuffate di demagogia travestita da amore per il popolo, un popolo che, spero bene, non corrisponda a chi scrive di tutto in rete, un popolo che non comprende cosa stia accadendo. O al quale non vengono offerti gli strumenti, non tanto per far luce nelle tenebre, ma nello spiegare che le tenebre sono utili. Servono, le grandi traversate umane. Le transumanze. Le migrazioni. Tutto funzionale ad arrivare in quell’epoca per cui siamo costruiti. Affetti liquidi, la fine di ogni forma di intermediazione. Ma le persone, beh, le persone, devono capirlo. Che siamo tutti in una zona rossa e che ci stiamo avvelenando con le mille bombe gettate ogni giorno solo per distrarci. Da quel cammino, da quel percorso che ci rende umani. Eterni. Densi come le notti senza Luna. E lo dico mentre osservo un plenilunio difficile da osservare ad occhi nudi. Arriva il futuro, meglio mettersi gli occhiali da sole (cit. Timbuktu 3).
Soundtrack: Dream Syndicate – Black Light