Di seguito, dopo la pubblicazione del rapporto del procuratore speciale MuellerApre in una nuova finestra che decreta come il presidente americano non abbia cospirato con la Russia, uno stralcio tratto dal libro “Putin 4.0Apre in una nuova finestra“, pubblicato nel marzo del 2018, in pieno Russiagate. Il capitolo in questione si intitola “Tanto rumore per nulla?”
L’ultimo capitolo in ordine temporale di russofobia o putinofobia che dir si voglia è tutto americano ed è legato all’arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump, giunto dov’è proprio grazie all’appoggio diretto e personale di Putin, che si aspettava evidentemente grandi vantaggi. Se fosse così bisognerebbe dedurre che Vladimir Vladimorovich si è sbagliato di grosso e a parte il fatto di aver creato un bel putiferio in casa americana, obbiettivo che comunque gli farebbe piacere, ha messo in pericolo la sicurezza non di mezzo mondo, ma di quello intero, Russia compresa. I dossier su Iran e Corea del Nord sono gli esempi più chiari di come una condotta poco accorta di Trump, accompagnata dai falchi a Washington a cui piace gettare benzina sul fuoco, potrebbe condurre a disastri imprevedibili.
La questione principale è però che il nuovo presidente americano non solo si è messo in linea con i suoi predecessori nelle relazioni con la Russia e ha mantenuto nei fatti tutte le posizioni precedenti, dalle sanzioni antirusse, addirittura rincarate, al sostegno dell’Ucraina, ma si è gettato in una politica estera da classico elefante nel negozio di porcellana e tra Siria, Iran e Corea e si è preoccupato di tutto tranne che di tenere in qualche minima considerazione non certo gli interessi del Cremlino, ma nemmeno i più lontani desideri. Se VVP ha voluto un folle alla Casa Bianca ha fatto un grande autogol.
Ora, considerando che Putin, invero più grande tattico che non stratega, nonostante questo però non completamente rimbambito, è uno che poco improvvisa e soprattutto conosce bene i suoi avversari per averli studiati a lungo lasciando quasi nulla al caso: è possibile che abbia tramato un piano così diabolico per finire in una situazione del genere?
La verità ovviamente, come sempre, sta nel mezzo. Da una parte è vero che la Russia ha interferito più o meno direttamente durante le elezioni americane per danneggiare Hillary Clinton, dall’altra è altrettanto vero che sono stati i cittadini statunitensi, che ben conoscono i loro polli, a decidere chi mandare alla Casa Bianca. Dare la colpa di aver manipolato il risultato delle presidenziali americane a qualche dozzina di profili falsi sui Facebook è un’accusa che non regge nemmeno alla prova del buon senso. VVP è stato però individuato dall’America anti-Trump come il colpevole del disastro elettorale democratico, per altro previsto e prevedibile con una candidata di famiglia (negli ultimi 30 anni la presidenza americana è andata per 20 ai clan Bush e Clinton) che pochi, a parte l’establishment cosiddetto liberale, volevano.
Questo il sunto dei fatti, il resto è isteria mediatica pilotata politicamente. L’accusa degli americani è quella che la Russia si sia immischiata nelle faccende interne, cosa per altro in parte anche vera, almeno secondo la legislazione americana. E allora? Gli Stati Uniti non hanno mai messo lo zampino nelle questioni russe o di altri paesi, leggi o non leggi? E proprio nei processi elettorali? Il punto è che per la prima volta nella storia Washington è stata colpita a distanza e si è rivelata impotente nel gestire le conseguenze.
Il terzo millennio è quello delle nuove tecnologie, della guerra ibrida, mediatica, che corre prima su internet e poi si riversa in tv, sulla carta stampata e la radio. Gli Usa, al tempo delle fake news, sembra quasi che siano rimasti alla propaganda di una volta, quella trasmessa via radio e delle cartoline lanciate dagli aerei, che va bene oggi forse per un paio di angoli dell’Afghanistan, non oltre. L’America, dalla dissoluzione dell’Urss, ha sempre guardato dall’alto verso il basso la Russia, e non si aspettava un attacco al cuore della propria democrazia scoprendosi così vulnerabile. Washington, che nel 1996 ha aiutato Yeltsin a non finire sconfitto dai vecchi comunisti e che negli anni successivi anche sotto Putin si è sempre dedicata a finanziare direttamente e indirettamente progetti politici e affini in Russia (organizzazioni, istituzioni, formazione, media e via dicendo) ingerendo senza ombra di dubbio negli affari interni del paese, ha dovuto scoprire che stavolta i più furbi sono a Mosca.
È vero, la legislazione russa, diversamente da quella Usa, non proibiva tali finanziamenti, ma è la sostanza che conta. Disinformazione è anche la parola d’ordine per quel concerne le indagini contro il cerchio magico di Donald Trump nella parte del cosiddetto Russiagate che ha coinvolto l’Ucraina. La colpa del lobbista Paul Manafort non è stata quella di pagare politici europei per ammorbidire l’immagine di Victor Yanukovich, ma di non averlo dichiarato come vuole la legge americana. Cioè foraggiare chiunque o quasi, da Kim Jong Un a Hannibal Lecter, per sostenere un governo straniero si può, bisogna però farlo alla luce del sole e pagarci sopra le tasse. Che le lobbies siano attive solo in una direzione è ovviamente un mito che cade appena di lascia il terreno della propaganda, basta dare un’occhiata a come si muovono in Europa le agenzie pubbliche e private americane, le istituzioni e i molteplici think tank e soprattutto chi paghino per far cosa.