I ragazzi arrivarono in bicicletta in piazza, fin dalle prime ore del mattino. Pechino una distesa informe di fabbriche, dormitori operai e reliquie di periodi imperiali passati e sradicati. La Cina, all’epoca, era un gigante silenzioso, da cui uscivano poche persone e poche notizie. Un paese incantato in una forma di torpore socialista.
Sulle biciclette, spesso, c’erano due persone. Le camicie bianche e le gonne e pantaloni neri di fustagno degli studenti e dei lavoratori nei giorni di riposo. Buste di plastica con dentro carta, vernici e pennelli. E qualcosa da mangiare e da bere.
Le biciclette passavano, con un fruscio lento, attraverso cantieri e strade parallele alle grandi avenue del regime. Erano tanti, tantissimi. Migliaia e migliaia. Come se il gigante socialista fosse in preda ad una crisi e quei ragazzi fossero globuli bianchi nelle arterie del corpo di Mao reso nazione.
Non era la prima volta che erano le nuove generazioni a scatenare il cambiamento. Altre volte i giovani cinesi erano partiti, all’improvviso. Seguendo sogni e dottrine ripetute e scandite attraverso le campagne e le grandi citta’, gli studenti e gli agricoltori. Il libretto rosso e gli slogan.
E noi, quelle biciclette, le vedemmo, riempire lo spazio enorme fra il mausoleo di Mao e i palazzi austeri in stile sovietico. Attraverso le telecamere della CNN.
Una processione silenziosa, scandita da rumori di campanelli e il fruscio delle ruote e delle gonne delle ragazze sui cerchioni. Una processione dove poche settimane dopo sarebbe passato il corteo del primo maggio, il momento chiave nel quale il sistema socialista in tutto il mondo festeggiava le proprie vittorie di Pirro, di fronte al capitalismo che avanzava ovunque. Anche perche’ offriva salvezza dalle miserie con un’illusione di liberta’ personale, finanziata a debito, il debito che si sarebbe accumulato, da quegli anni, come una specie di Jenga di carta. Per poi franare, ma solo venti anni dopo quelle notti primaverili di Tienanmen.
Lo slogan Just Do It della Nike era stato lanciato solo l’anno prima, nel 1988, con tutto il suo bagaglio di un mondo senza limiti se solo armati delle scarpe giuste. Just Do It. Ed i ragazzi di Tien-an-Men lo fecero. They just did it.
Le immagini sgranate e rare ci raccontavano una piazza Tien-an-Men, all’epoca la piu’ grande al mondo, stracolma di studenti, di lavoratori. Un risveglio di una primavera cinese che, a noi, all’epoca studenti a fine liceo, arrivo’ improvviso, inatteso. Quei ragazzi e quelle ragazze, vestiti tutti uguali e con cartelli che dicevano ‘Liberta’ o morte’, ci raccontavano di un mondo in transizione. Ancora non sapevamo cosa sarebbe successo in Germania in Novembre ed in Romania a Dicembre dello stesso anno. Era un momento di cambiamento incredibile, e i ragazzi cinesi lo percepirono in qualche cosa, nel vento che scendeva dal deserto dei Gobi, attraverso la Muraglia. Era il 14 aprile quando l’occupazione di Tien-An-Men inizio’, fino al 4 giugno, quasi tutta una primavera che, in quella parte della Cina, e’ scandita da giornate di sole e dai ciliegi che esplodono in fiore ovunque.
E quelle settimane, se non mesi, ci fecero sognare, dibattere. Ricordo le assemblee dove si discuteva se quella rivolta di giovani non fosse un tradimento del maoismo od una sua evoluzione. Non tanto una occidentalizzazione, ma una sua nuova fase. I figli della rivoluzione culturale, i figli unici delle politiche demografiche, reclamavano un diritto ad essere ascoltati. Ma, alla fine, il governo cinese non solo non ascolto’ la piazza, ma fece scendere l’esercito e i carrarmati. Le scene in diretta dell’uomo con i sacchetti della spesa che si para di fronte ai cingoli. E che immobilizza per un’ora eterna una colonna di soldati. Nessuno sapra’ mai chi fosse, o cosa disse ai soldati quando si arrampico’ sulla torretta del cannone. Ma quell’immagine rimane indelebile, tatuata nell’immaginario della mia generazione.
Fu quella primavera cinese il momento in cui perdemmo tutto. A parte il debito. A parte le obbligazioni lasciate dai nonni prudenti in eredita’. Le biciclette dei giovani cinesi lasciarono la piazza e non ci tornarono piu’. Comincio’ una lunga trasformazione del maoismo in una specie di socialismo borghesizzante. Che le macchine hanno le targhe e le carte di credito sono sempre rintracciabili. Il futuro e la tecnologia diventarono, in tutto il mondo, armi di controllo dell’opinione. Come abbiamo imparato in questi anni di Brexit, Trump e tante altre deviazioni della coscienza collettiva.
Tienanmen, oggi, non accadrebbe mai, perche’ le echo chambers della rete, i codici VPN, i gruppi su Whatsapp o WeChat tradirebbero i cospiratori. O, come accade in Occidente, tutto viene permesso perche’ tutto e’ controllabile.
Perdemmo, in quel momento storico, perche’ rendemmo il futuro un posto di cui accontentarsi, in cui agevolarsi, rateizzarsi le speranze e non un luogo in cui alimentare quei mille movimenti giusti che ci parlavano di terze vie, di sviluppo sostenibile, di uguaglianza e di educazione come motore della crescita. Perdemmo perche’, dopo il primo furore e le manifestazioni mentre i giovani cinesi venivano rincorsi da polizie segrete in ogni parte del paese, tornammo ad osservare le grandi trasformazioni come spettatori e non piu’ come protagonisti.
Lasciammo le generazioni passate continuare a dare il passo ed oggi ci sentiamo sfibrati e leggermente sardonici e polemici mentre vediamo l’entusiasmo di chi riempie le piazze, di chi chiede un futuro possibile. Anzi, stiamo entrando in quella parte della vita dove i diritti acquisiti vorremo rimanessero tali, quella fase della vita in cui abbiamo paura del cambiamento, del diverso. E, quindi, lasciamo i peggiori istinti della storia tornare a fare capolino. Perche’ la pigrizia, alla fine, genera sempre le piu’ grandi paure. Quella pigrizia di volersi confrontare con un mondo che cambia, che esige un cambiamento.
Perdemmo tutto. E, in questi giorni di memorie che si assottigliano, di sguardi lunghi al passato, torna quell’imperativo di rilanciare la mira avanti. Ed immaginarsi un mondo dove i ragazzi di Tienanmen non siano morti invano e dove gli slogan sui muri e sui cartelli dei giovani in piazza per l’ambiente, come i tanti giovani in piazza per un’idea di Europa che sia terra comune di incontro e di accoglienza, e non di divisione, diventino realta’, o, come si dice in inglese, policy. O, piu’ semplicemente, politica. Prima che sia troppo tardi e che anche queste nuove generazioni perdano tutto, confondendo la speranza con un investimento a tasso fisso.
Soundtrack
Sam Fender – Hypersonic Missiles https://www.youtube.com/watch?v=CDsFKOrLWhU