Buona e mala politicaQuattro ragioni attorno all’idea di patria europea

Da uno spunto originale di Emma Bonino nella campagna elettorale in chiusura Stefano Rolando Nell’evolversi della pur rapida, concitata e per lo più travisata campagna elettorale per le europ...

Da uno spunto originale di Emma Bonino nella campagna elettorale in chiusura

Stefano Rolando

Nell’evolversi della pur rapida, concitata e per lo più travisata campagna elettorale per le europee – che giunge alle urne domani, domenica 26 maggio – Emma Bonino è tra i pochi leader che hanno voluto impegnarsi sullo specifico europeo di queste elezioni ed è quella che ha posto la questione della doppia plausibile identità per i cittadini-elettori europei, tra appartenenza nazionale e pari appartenenza identitaria europea.

E’ una questione antica, dibattuta, territorio di speranze, profezie, delusioni.

Ma al tempo stesso continuamente attaccata dalla vecchia idea di nazionalismo primatista, quello per cui l’Europa è espressione sì di una delle geopolitiche di opportunità, mentre tuttavia il primato nazionale agisce con il retro-pensiero – di solito poi espresso in modo becero e nella storia anche con modalità violente – che il “proprio nazionalismo” sia superiore a quello degli altri, ovvero che alle strette scelgo me e non altro simile nazionalismo, perché si è incapaci di risalire all’insieme delle ragioni storiche che fanno di quel conflitto tra nazionalismi una delle maggiori disgrazie del pur fortunato e culturalmente ricco popolo europeo.

Per noi italiani all’origine risorgimentale del pensiero sull’identità europea c’è, come è noto, Giuseppe Mazzini, con queste parole del 1834: “L’epoca passata, che è finita con la rivoluzione francese, era destinata ad emancipare l’uomo, l’individuo, conquistandogli i doni della libertà, della eguaglianza, della fraternità. L’epoca nuova è invece destinata a costituire l’umanità, è destinata ad organizzare un’Europa di popoli, indipendenti quanto la loro missione interna, associati tra loro a un comune intento[1].

La ormai acquisita citazione di Altiero Spinelli tra i padri della patria europea attualizza l’elaborazione italiana attorno a questo approccio e pone nel progetto contemporaneo l’idea di superare insieme il ritorno involutivo ai nazionalismi primatisti destinati al conflitto con il principio dell’Europa libera e unita, federale, immaginata nel Manifesto scritto con Ernesto Rossi al confino a Ventotene nel 1943 e diffuso – con la prefazione di Eugenio Colorni – nel 1944. I principii basilari per una libera Federazione erano pochi e semplici punti: un esercito unico federale, l’unità monetaria, l’abolizione delle barriere doganali e delle limitazioni all’emigrazione tra gli stati appartenenti alla Federazione, la rappresentanza diretta dei cittadini ai consessi federali, una politica estera unica.

Che continui un’elaborazione in Italia attorno a questa centralità della questione identitaria – in cui l’Europa, nell’impasse subito nell’avvio del terzo millennio, non ha ancora trovato un ceto politico così roccioso e determinato per venire a capo di titubanze e, purtroppo, ripiegamento tecnocratico – lo si legge anche nelle recentissime pagine di un collaboratore dello stesso Spinelli, che ha rivestito importanti responsabilità in seno alla Commissione europea, Riccardo Perissich, che nella sua analisi su “sogni, incubi e realtà” dell’europeismo attuale [2] proprio nel capitolo dedicato a “Identità, sovranismo e consenso” comincia con l’analizzare se sia vera o no la critica che vuole l’assenza di demos, cioè di popolo europeo, alla base dell’assenza di unità politica dell’Europa.

Avere messo nell’agenda di questa campagna elettorale la questione identitaria – e chi altri lo avrebbe potuto fare se non la leader di “Più Europa”? – è molto rilevante per quattro diverse ragioni.

  • La prima ragione è che la crisi politica e comunicativa dell’Europa è quella che, tra il Trattato di Lisbona del 2000 e l’avvio della crisi finanziaria mondiale del 2008, non ha permesso di dar forma e sostanza proprio al punto alto di elaborazione di quel trattato, facendo – nella difficoltà di reggere il doppio attacco, quello esterno della globalizzazione e quello interno dei rinascenti nazionalismi – un rielaborazione identitaria plausibile dell’appartenenza europea. Ieri lo ha ben scritto nel suo editoriale sulla Gazzetta di Parma Nicola Occhiocupo[3]: “La miopia del ceto dirigente europeo ha vanificato, tra l’altro, l’impostazione programmatica contenuta nella strategia di Lisbona delineata dal Consiglio d’Europa nel 2000, brevemente richiamata, proprio nel momento in cui essa, nella fase più acuta della crisi, avrebbe dovuto tradursi in sollecite, comuni, solidali azioni positive. Le misure adottate sono state ritenute, per ragioni diverse, dalla maggioranza dei cittadini dei diversi Stati, insoddisfacenti, insufficienti, deludenti, aumentando il senso di insicurezza e di malessere, di sfiducia sia nei confronti dei governi nazionali sia di quelli comunitari, di rigetto dell’Unione Europea, e hanno fatto percepire l’Europa come lontana, non attenta ai problemi reali delle persone, alimentando così anche la nascita e il diffondersi di forze contrarie al progetto di integrazione europea”.
  • La seconda ragione è il recupero della dimensione concettuale, emozionale e politica della idea di patria nel progetto di rigenerazione europea, sottraendo lessico ed implicazioni (la materia identitaria in senso lato) da un ingiustificato possesso da parte della destra, spesso con malintesi culturali infarciti di facilonerie ed errori plateali. E che nel caso italiano riguardano forze, come la Lega, che ha usato il lessico politico come una clava, incurante di ogni coerenza. Basti pensare all’idea di federalismo che in tutto il mondo (a partire della storia pur drammatica della formazione degli Stati Uniti d’America) ha significato “riunire”, mentre la Lega lo ha usato prima per significare secessione, poi separazione, infine comunque disunione. Come ha ben scritto Colin Crouch nella sua ultima analisi del rapporto tra globalizzazione e nazionalismo: “La globalizzazione ha messo in crisi l’identità – oltre che la stabilità economica – di milioni di persone. E’ un problema che va affrontato seriamente ma la cui soluzione non può essere il nazionalismo[4]
  • La terza ragione è determinata da quel processo di nuova pesante intermediazione nel rapporto tra economia, politica e comunicazioni in cui sta evolvendo l’idea che la fase recente del web (Google, Amazon, Microsoft, Ali Baba, eccetera) producesse solo disintermediazione insieme a nuove libertà e nuove opportunità di conoscenza. Senza negare alcune di queste opportunità, la determinazione oligopolistica di questo processo sta assumendo caratteri sconvolgenti per le libertà e le opportunità di paesi, popoli e cittadini. Su questo rinvio alle conclusioni di Benedetto Della Vedova alla conferenza dei giorni scorsi all’Umanitaria a Milano in materia di libertà di espressione e alterazione della realtà [5]. La concentrazione di potere politico-militare nelle mani del triangolo USA-Cina-Russia pone dunque il tema urgente di un’Europa unita non solo nei caratteri del servizio alle condizioni del mercato interno ma soprattutto come soggetto capace di concepire se stessa nel futuro dell’innovazione, della ricerca e degli obiettivi macro-sistemici. Intanto come soggetto capace di generare una politica regolatoria (tema che ha nella commissaria liberaldemocratica alla Concorrenza Margrete Westager un punto di riferimento).
  • La quarta ragione riguarda i contenuti delle prossime immediate trattative della porzione “europeista” che viene data sicuramente per maggioritaria nel Parlamento europeo che sta per essere eletto. Popolari e socialisti sono parte di questo orientamento e sono essenziali nella determinazione di questa maggioranza. E tuttavia entrambi questi gruppi hanno espresso nel corso degli ultimi venti anni forti contraddizioni, spesso paralizzanti, i primi tra componente liberale e componente sovranista (tra Merkel e Orban, per intenderci); i secondi tra componente riformista e spinte massimaliste, secondo il ben noto dualismo che trovò tregua feconda solo negli anni ’80 nel quadro di una indimenticata stagione di successo socialdemocratico rispetto alle istanze ancora non crollate della deviazione comunista che alla fine di quel decennio fu sanzionata definitivamente dalla storia, pur lasciando viva l’ambiguità massimalistica. E’ fin troppo evidente che il segmento liberaldemocratico (ALDE, presidente Guy Verhofsdat), in cui si inquadrerà anche la componente liberalsocialista macroniana, sarà centrale ed essenziale non solo per fare maggioranze ma soprattutto per dare contenuto alla prospettiva di un europeismo strategico. E senza riqualificazione del rapporto di appartenenza, dunque senza dare soluzione alla ricerca chiara del “demos”, non ci sarà svolta in un dialogo internazionale in cui senza ombra di dubbio i grandi soggetti mondiali su questo tema hanno lavorato più di noi.

[1] Cosimo Ceccuti, “Patria, democrazia e umanità nel pensiero di Giuseppe Mazzini” (“Annali del Centro Pannunzio”) anno 2005/2006, Torino, pag 13.

[2] Riccardo Perissich, Stare in Europa, Bollati Boringhieri, 2019

[3] Nicola Occhiocupo, Europa e Italia patria comune, editoriale per la Gazzetta di Parma, 24 maggio 2019.

[4] Colin Crouch, Identità perduite. Globalizzazione e nazionalismo, Laterza, 2019.

[5] Conclusioni di Benedetto Della Vedova alla conferenza su “Libertà di espressione e contro l’alterazione della realtà” (Milano 17 maggio 2019), http://stefanorolando.it/?p=2435&fbclid=IwAR1O4umHVAYQowCzU2aPTAw21EEjdMGxWyHFoD_y_9PtuMuDxWNuf-Da_e4

X