Tre anni fa venivano approvate le unioni civili. Prima di quella data, il nostro Paese era uguale a quella vasta zona grigia di stati che non condannano con leggi ad hoc l’omosessualità, ma che non conferivano parimenti diritti. Lontano, dunque, dalla Russia di Putin che vieta di definirsi gay, dall’Uganda che ti mette in carcere se lo sei o dall’Iran che ti impicca se ti piace una persona del tuo stesso sesso. Ma altrettanto lontano da USA, Germania, Francia, Sud Africa e molte altre nazioni dove le persone Lgbt possono sposarsi e costruirsi una famiglia, degna di questo nome.
A distanza di tre anni, moltissime coppie di uomini o di donne hanno potuto regolarizzare la loro unione. A condizione di non chiamarla famiglia, ma “formazione sociale specifica” – distinguo che a distanza di tre anni permane ancora – e a condizione di non avere riconosciuto nulla sul terreno della genitorialità, fatta salva la buona volontà di qualche giudice. Discriminazione insita nella legge approvata quel lontano 11 maggio e che rimane invariata. A livello umano, al di là delle oggettive limitazioni (e dei limiti culturali) che la legge porta con sé, ho gioito e mi sono commosso per quelle persone che hanno potuto mettere al sicuro le lore famiglie. Famiglie che – per quella cosa che potremmo definire “senso di realtà” – sono tali, nonostante in parlamento si dica altro.
Eppure, a distanza di tre anni, non riesco – esattamente come nel 2016 – a celebrare quel risultato politico perché, a ben guardare, se è vero che siamo sempre più lontani da Russia, Uganda e Iran, è altrettanto vero che non siamo ancora vicini a USA, Germania, Francia, Sud Africa e molte altre nazioni dove le persone Lgbt possono sposarsi e costruirsi una famiglia, chiamata con questo nome. Anzi, dopo di noi proprio altrove si è assistito a un ulteriore passo in avanti, sul piano del riconoscimento giuridico, come in Germania dove le unioni civili hanno ceduto il passo al matrimonio. L’Italia, invece, è rimasta lì dove l’abbiamo lasciata. Con qualche diritto in più, sul piano normativo, ma pagando il prezzo di una narrazione per cui il non essere eterosessuali si sconta con una legislazione a parte e con diritti diversi.
Riguardo al qui ed ora, va detto infatti quanto segue:
– siamo rimasti fermi al 2016, come movimento Lgbt soprattutto (non tutto, va detto, ma questo è)
– la gloriosa marcia verso il matrimonio, promessa come lenitivo per una legge monca e umiliante, non è mai partita dentro il Pd
– i diritti dei bambini e delle bambine arcobaleno sono ancora appesi all’arbitrio delle procure
– i padri gay hanno ottenuto un bello stop nel riconoscere i loro figli dalla corte di Cassazione, nonostante quel “fatte salve le disposizioni in materia di adozione” che doveva aprire all’omogenitorialità.
In buona sostanza, mantenendoci sul piano politico, hanno vinto Angelino Alfano, i cattodem, coloro che lavorarono alacremente affinché si approvasse quel poco, che coincideva col minimo sindacale, poi barattato con l’ancor meno. Hanno vinto, sul piano culturale e legislativo, quelli della “rivoluzione antropologica contro natura”. C’è poco da celebrare, insomma. E molto da fare. E il molto da fare dovrebbe partire dall’unica considerazione possibile: siamo, ancora, terribilmente indietro. Se non si riconosce questo, non verrà fatto nessun passo in avanti.