Puntuale in questo periodo dell’anno, come un brufolo sul naso nei week end in cui hai previsto di far roba col tipo puntato da settimane, arriva il mantra del “ma voi prof avete tre mesi di vacanze”. Frase che nasce da una retorica spicciola e a buon mercato, ad uso e consumo di quel popolino volgare e sciatto — quello che si indigna facile per una nave salvata da una ong, per intenderci, ma che poi fa spallucce per i ladri che diventano parlamentari — ma che diventa anche inspiegabilmente à la page tra chi avrebbe qualche strumento culturale in più per comprenderne l’insostenibilità. Logica, prima di ogni altra cosa.
Su questa frase, per altro, si consumano polemiche che dividono la società in due schieramenti tra loro inconciliabili: chi è convinto della verità racchiusa in essa e chi, invece, prova a contrastarla cercando di far capire perché quell’affermazione non sia vera, quasi giustificandosi o provando una certa insofferenza. Ebbene, io credo che l’approccio a certe provocazioni debba essere radicalmente diverso. Un approccio, se vogliamo, di rivendicazione di quel “privilegio” — che, come vedremo, privilegio non è — e di riconsiderazione sociale della nostra professione.
Perché la prima cosa che va obiettata è la comparazione tra il mestiere di chi insegna e qualsiasi altro lavoro (meglio se d’ufficio). Equivalenza che va rigettata, respinta, bocciata. Rimandare al mittente, grazie. Per arrivare dove sono arrivato, ho preso una laurea in Lettere. Poi ho fatto un master in comunicazione didattica, quindi la scuola per la formazione degli insegnanti (ex SSIS) e infine un dottorato. Questi titoli, quando vai a fare un concorso, fanno la differenza. Ah, alle SSIS si accedeva per concorso pubblico, si facevano due anni di lezione e uno di tirocinio e, infine, una tesi con esame di stato finale. E vi dirò una grande verità: non credo sia eccessivo, anzi. Fare l’insegnante è una responsabilità enorme, per cui ben vengano persone quanto più preparate possibile. Dubito che per vendere giornali in un’edicola, fare le fotocopie in un ufficio o rispondere ad un call center sia richiesto tutto ciò. Vi stupirà sapere, tuttavia, che i nostri stipendi sono abbastanza simili. Io mi scandalizzo di questo.
A tal proposito, va ricordato ancora che un maestro o una maestra, un professore o una professoressa non fanno un lavoro d’ufficio, non timbrano il cartellino e non riempiono moduli. C’è, ovviamente, l’aspetto buracratico del mestiere (aspetto che andrebbe drasticamente ridimensionato nel settore pubblico), ma quella è una parte del lavoro. Non è il fine. Fare l’insegnante significa altro: significa trasmettere il sapere, concorrendo allo stesso tempo a formare una coscienza critica. Se vogliamo usare un’immagine, è come insegnare a guidare un aeroplano e, nel frattempo, addestrare una persona a costruirsene uno tutto suo. Con tutto il rispetto dovuto a chi mette timbri su circolari e autorizza i pagamenti di questo o quell’ufficio e alle professioni di cui sopra, è qualcosa di radicalmente diverso.
Detto ciò, la questione del tempo libero in più andrebbe rivista in base al tipo di professionalità che sta dietro al mestiere dell’insegnante e andrebbe precisata (per puro amore di verità, senza aver paura di urtare chissà quali sensibilità vacanziere) in relazione al tempo effettivo passato fuori dalle aule, nei mesi estivi e durante le vacanze di metà anno. Il tempo libero in più c’è e non lo nega nessuno, ma non sono tre mesi — ditelo a chi insegna al liceo, ad esempio — e non è un privilegio. Vederlo come tale significa non capire nulla di cosa fa un/a docente nella sua aula.
Non esistono paesi civili degni di questo nome in cui il docente è sottoposto a un regime lavoro/ferie omogeneo a quello di un dipendente pubblico qualsiasi perché chi insegna, come si è già detto poco più su, non è un dipendente pubblico qualsiasi. Insegnare è un lavoro usurate, in termini psichici e non solo. Se fai operazioni in uno sportello d’ufficio, avrai a che fare con l’utenza e le sue bollette, oltre capo e colleghi. Se insegni avrai a che fare con un essere umano e la sua complessità insieme a quella dei suoi genitori — alcuni dei quali, a volte, mettono a durissima prova la tua serenità e la tua salute psico-fisica — oltre a capo e colleghi.
Insegnare è, insomma, una professione — ripetete con me: pro-fes-sio-ne — che richiede grande spirito di adattamento e un certo sacrificio. L’investimento sul piano umano è enorme. Restare a casa nei periodi in cui la scuola è chiusa non è un’ingiustizia nei confronti di altre categorie, che hanno a ben vedere vantaggi diversi. Se io volessi andare a Cuba a marzo o a ottobre, non potrei farlo. Le mie ferie seguono il calendario scolastico, che coincide con l’altissima stagione. Chi lavora in un ufficio, invece, e programmando le sue vacanze, sì. Se sul piano dove stai insegnando non ci sono bidelli (e a quanto pare ce ne sono sempre meno) che ti tengono la classe e hai un attacco di diarrea te la tieni. Chi lavora al computer può benissimo allontanarsi e farsi dieci minuti buoni al bar dell’ufficio.
La narrazione dell’insegnante con troppe ferie non fa altro che assimilare la figura del docente a quella di un impiegato fannullone e privilegiato. E tale narrazione, ne parlavo in apertura, fa parte di una retorica di destra, anche estrema se vogliamo. Retorica che riduce la trasmissione del sapere e la costruzione del pensiero critico a ore di lavoro da giustificare sul cartellino. Passi per chi vota Salvini oggi, per chi cantava “meno male che Silvio c’è” ieri e chi brandiva il saluto romano ancora prima. Ma questa narrazione è rivoltante, soprattutto se pensiamo che a portarla avanti sono per lo più persone che a scuola ci mettono piede, se va bene, per prendere il libretto delle giustificazioni dei loro figli. Se va bene, sottolineo. Persone a cui dico, in conclusione: nessuno vi ha impedito di laurearvi in lettere, matematica, lingua e letteratura inglese o scienze motorie. E i concorsi sono aperti a tutti. Basta vincerli. Se siete in grado, mettetevi alla prova. Altrimenti, muti.