Strani giorniFuori da questo corpo! Alcune riflessioni su body shaming, cicatrici e libertà

Leggevo su Twitter di un ragazzo che si faceva problemi a mostrare il suo corpo perché fuori dai canoni classici di magrezza, tonicità, muscolosità e via discorrendo. Alla fine decide di fotografar...

Leggevo su Twitter di un ragazzo che si faceva problemi a mostrare il suo corpo perché fuori dai canoni classici di magrezza, tonicità, muscolosità e via discorrendo. Alla fine decide di fotografarsi a torso nudo. Decide, dunque, di autodeterminarsi. Liberandosi. Seguire la rappresentazione per cui un corpo lo si esibisce solo se corrisponde a certi canoni è un modo come un altro per permettere ad un sistema specifico di avere potere su di noi. In fin dei conti, una persona che obbedisce a tutto ciò è, per definizione, una persona obbediente.

Adesso, voi giustamente mi direte: ma che ragione c’è di farsi una foto a torso nudo da pubblicare sui social? Apparentemente nessuna. È un gesto di narcisismo, forse. O forse no. Ma, per quel che mi riguarda, non ha senso nemmeno lasciar emergere il proprio tifo calcistico o la propria opinione sulla sirenetta nera. Eppure…

Vi racconto due storie: la prima mi riguarda. Ho sempre dovuto lottare con un corpo che – complice un vuoto esistenziale che è un po’ il demone con cui faccio i conti per una storia di bullismo (che ogni tanto ritorna) – tende ad allargarsi e a restringersi. Ho seguito una terapia e la mia psicologa mi ha detto che, quando da bambino mi ingozzavo, ingrassando, era il mio modo di conquistare spazio in un mondo che non mi prevedeva e tendeva ad escludermi. È dunque successo che, in qualche occasione, ho pubblicato delle immagini di me a torso nudo. Ero al mare, o sul mio letto, in vacanza in qualche località estiva. Non l’ho fatto per quella che potrebbe essere definita frivolezza, ma perché in quei momenti realizzavo che l’unica persona che doveva esprimere un giudizio sul proprio aspetto fisico ero io. Mi sono autodeterminato, insomma.

Seconda storia: sono recentemente stato a New York, per il World Pride. Ho visto alcuni maschi trans FtM. Con la sigla FtM si indicano quelle persone che, geneticamente parlando, sono di sesso femminile (hanno cioè il cromosoma XX), ma si identificano con il genere maschile. Ne ho incontrate alcune, durante i giorni della celebrazione dei cinquant’anni di Stonewall, a torso nudo. Avevano cicatrici ben evidenti, segno della mastectomia che ha restituito loro la visione che avevano del proprio corpo. E, quindi, di se stesse.

Ammetto che quelle cicatrici non sono passate indifferenti. Mi hanno interrogato, cioè, sulla necessità di esibirle. Ad un primo impatto mi hanno anche “dato fastidio”. In psicoterapia – seguo un percorso di gruppo, adesso – indaghiamo molto il fastidio che gli altri suscitano alle nostre coscienze e quando ciò accade realizziamo che si tratta sempre di un rispecchiamento. C’è, nell’altro/a da sé, qualcosa che rimanda a noi. Qualcosa di profondo, con cui fare i conti. In quel primigenio fastidio c’era, per farla breve, il mettermi in contatto con l’incapacità di aver accettato il mio corpo per troppo tempo. Le ragioni per cui quelle persone esponevano i segni sulla pelle stava nell’uso politico che ne facevano: la pubblica dichiarazione dell’essersi riappropriati della propria vita. La loro capacità di autodeterminarsi umiliava, a livello inconscio, una mia mancanza: non esser stato come loro. Libero.

Si tratta, sic et simpliciter, di atti di libertà. E questi dovrebbero essere valutati nella misura in cui tolgono libertà e diritti agli altri. A me nulla toglie se un ragazzo con un corpo “fuori norma” decide di esporsi alla vista altrui. Non mi piace? È un mio problema. Evito di guardarlo. Il body shaming non fa altro che cavalcare un sistema di potere che ci vuole regolari e inquadrati. Obbedienti a un principio. Chi lo cavalca è perciò “servo” – nel senso che “serve”, nella misura in cui “è utile” – di quel sistema che vuole sottrarci spazi di libertà. Per questo, quando vediamo qualcuno che non ci piace fisicamente e reagiamo con commenti di dileggio, siamo sempre chiamati a porci una domanda. Ovvero: quanto la nostra reazione non stia aiutando qualcun altro a renderci, tutti e tutte, meno autentici. E, forse, anche decisamente persone più odiose. Chissà che il mondo che ci circonda non diventi, se non migliore, almeno meno aggressivo.

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