Stefano Rolando
Per fortuna il sistema mediatico da alcuni anni si è articolato di fronte al fenomeno migratorio. A volte con approcci argomentati, altre volte con eccesso di dipendenza dal “colore” degli eventi.
Resta comunque un fatto che – dopo la fotografia di Alan Kurdi, il bambino siriano di tre anni, di etnia curda siriana, simbolo della crisi europea dei migranti dopo la sua morte per annegamento con la foto scattata al ritrovamento del suo corpo senza vita[1] – la storia delle persone, cioè dei casi singoli, ha trovato il suo posto nel sistema dell’informazione. Un posto che ha attaccato, smussato, ridotto l’approccio “impersonale” dei media, fatto di foto di maree umane straripanti additate come minacce in arrivo in casa nostra, oppure come altrettante file di straccioni ripresi dall’alto lungo sentieri di montagna, sempre figurativamente diretti nel nostro salotto di casa.
Abbiamo scoperto non solo donne e bambini, materiale informativo prediletto dal “buonismo”. Ma finalmente anche giovani problematici, con un quantum di disperazione ma anche con un progetto migratorio coraggioso. Abbiamo ritrovato i nostri migranti capifamiglia di un secolo fa e oltre nell’immensa storia migratoria italiana, da nord e da sud, verso le Americhe e l’Australia, capaci di tenere insieme vere e proprie tribù alla ricerca di pane e fortuna. Storia che dimezzò la popolazione italiana, creando una delle più grandi comunità internazionali in diaspora, spesso determinando in una o due generazioni condizioni di vita dignitose e oggi facendoci contare classi dirigenti italiche in giro per il mondo. Avrebbe dovuto essere una grande lezione di etica pubblica per noi italiani. Ma prima fu trattata come una vergogna, poi con disinteresse e infine con perdita delle coordinate per capirne tutti i risvolti economici e civili.
Ecco perché quando le migrazioni diventano narrative puntuali e non solo apocalisse collettiva, il contributo a far ragionare l’opinione pubblica tende a superare la strumentalizzazione dei sentimenti di paura e di rigetto. Questo cambiamento nei media di mezzo mondo, Italia compresa, c’è stato. Certo insieme a una marea ancora di media-spazzatura. E noi oggi di fronte all’urto, anche violento, dei fatti, riusciamo a trovare racconti che non ci propongono solo il rischio della storia, ma anche il senso di vivere e di cercare di non subire i fenomeni del nostro tempo, come quello della globalizzazione.
Già, perché basta un maestro a scuola, un nonno saggio, un giornalista responsabile alla tv per introdurre il pensiero che in un mondo che si muove mille volte di più che un secolo fa, non possiamo solo misurarci con i piaceri e le opportunità dei nuovi consumi. Arriva l’web a basso costo per connetterci al mondo intero, certo. Ma arriva anche una parte di una umanità sfortunata che ha diritto di ripercorrere le stesse strade segnate dalla Bibbia come virtuose per liberarsi da alcune catene.
Il punto è di poter contare sul senso di responsabilità dei governanti. Tesi a regolare questi processi, a portarli sul terreno della legalità per impedire lo sfruttamento politico ed economico dell’illegalità, per sapere come negoziare davvero le assunzioni condivise di responsabilità infra-nazionali in sedi come quella europea, per dire la verità in termini di necessità di fronteggiare il turn-over dei lavori abbandonati, per non far finta di non sapere che già oggi nelle aule delle nostre scuole nelle periferie delle città la condizioni multietnica (spesso con assoluta maggioranza internazionale) è la regola che solo gli educatori civilmente virtuosi sanno gestire sapientemente contro chi aizza le famiglie (ovvero gli elettori) a rancorosi quanto sterili pregiudizi.
E quando il senso di responsabilità dei governanti è al di sotto di ogni soglia del buon senso, salvo quella del fatturato elettorale immediato (che come sempre prima o poi è destinato a nuovi cicli), si corre il rischio di ritrovare i fatti – nella loro complessità storica e attuale – micidialmente chiusi negli scatolini appunto del pregiudizio (come sempre confezionato con stereotipi) che vengono chiamati “leggi”.
Le leggi non sono eterne, non sono perfette, non sono sempre generate dalla virtù della conoscenza. Hanno di buono per noi che sono un prodotto della democrazia. Dunque un sistema cangiante sottoposto a verifica della storia. E dal tempo del processo ad Adolf Eichmann, primi anni ‘60’, le nuove generazioni post-belliche hanno capito che invocando il dovere dell’obbedienza cieca a leggi che producono ingiustizie si finisce comunque condannati. Dunque la coscienza critica del rapporto tra le regole e i valori costituzionali diventa un paradigma civile (non per pochi, ma per tutti) proprio nel tempo in cui le leggi non possono essere invocate a senso unico ma debbono essere parte della componente più viva e creativa delle democrazia: promuovere i cambiamenti.
Tutto questo breve e sommario inventario di “etica pubblica migratoria” mi è apparso evidente leggendo questa mattina l’intervista rilasciata da Carola Rackete, la capitana di Sea-Watch 3, che Salvini ha tacciato come una “sbruffoncella criminale” facendole trovare il coraggio della “forzatura” di disposizioni per consentire un indifferibile piano umanitario nella consapevolezza di assumersi responsabilità e rischi.
La magistratura si è fatta carico di misurare quella “forzatura” alla luce dei fatti e delle intenzioni. E ha scritto una pagina di indipendenza di giudizio che, comunque la si voglia pensare, è in questo periodo una bandiera alzata di autodifesa del sistema giudiziario italiano.
Il testo dell’intervista rilasciata, con pacata considerazione delle cose, a Repubblica[2] (immagino che quelle al Guardian e a Spiegel oltre che alla tv tedesca siano state dello stesso tenore), riporta sul terreno dell’influenzamento diretto dell’opinione pubblica lo scontro che lo stesso ministro dell’Interno italiano ha messo da sempre su quel terreno, scegliendo i piani bassi per massimizzare i consensi.
E’ vero che le pur semplificate parole della capitana non sono inarrivabili, ma è anche evidente che sul piano mediatico resta un differenziale quantitativo non da poco tra gli incitamenti all’odio e una riflessione come questa: “Abbiamo abbattuto un muro. Quello innalzato in mare dal Decreto sicurezza bis. Siamo stati costretti a farlo. Talvolta servono azioni di disobbedienza civile per affermare diritti umani e portare leggi sbagliate di fronte a un giudice“.
Non c’è altra strada che lavorare in questa lenta e inesorabile traiettoria argomentativa. Non c’è altra possibilità che sperare che figure del rilievo di questa giovane colta e determinata “europea” (come Carola si identifica, al di là della nazionalità di nascita) aprano, soprattutto nell’immenso partito dell’indecisione, lo spazio a toccare con mano che di fronte alle iniquità del nostro tempo non c’è solo lo scontro tra la demagogia e l’inazione.
Seguendo il filo logico di quel che dice la capitana naturalmente non è il gesto in sé ad essere “buono” (ciò valga anche per i politici che risolvono più con le passerelle che con la cultura legislativa del governo e del controllo la loro posizione). Ma sta lì il diaframma per assumersi responsabilità. Da cui derivano i negoziati sulle regole e l’inevitabile severità di adattamento di un sistema – come quello europeo dovrebbe e potrebbe essere – che trasferendo le migrazioni dall’idea dell’illegalità a quella della legalità sottragga all’incompetenza dei trafficanti di consenso il ruolo di essere arbitri del dossier oggi più mistificato della politica internazionale.
[1] Sulla spiaggia di Bodrun in Turchia il 2 settembre 2015.
[2] Fabio Tonacci, Carola Rackete: “Basta muri. Rifarei tutto”, Repubblica 6 luglio 2019.