Un’aula che sembrava un teatro, con i diversi attori pronti a vedere i riflettori accendersi su di sé. In due ore abbondanti, si sono sfilati (e sfidati) i tre principali protagonisti della attuale crisi politica, tutti pronti con dei fogli come gobbi a declamare i propri discorsi e invettive incrociate. Sembrava quasi un set cinematografico, anche se l’attesa continua e la tensione palpabile lo rendevano più un teatro alla vigilia della prima rappresentazione di una tragedia classica.
Già all’arrivo dei protagonisti, il pubblico (come si conviene ad ogni bravo pubblico) si scioglie in applausi, destinati sia al presidente del consiglio Conte che al Ministro dell’Interno Salvini, fino ad oggi responsabile unico della crisi.
La scena si apre in medias res: l’attore protagonista, Giuseppe Conte, l’eroe drammatico dal destino incerto, apre il proprio monologo con un incipit blando, ricordando il proprio ruolo e insistendo sul tema della chiarezza: “sarà una crisi trasparente”, “ho sempre limpidamente sostenuto”, “confronto franco e trasparente”.
Lo svelamento si traduce in un’invettiva aperta e forte verso l’antieroe romantico, il Bravo, il barbaro, l’irresponsabile ed esuberante ragazzo che travalica e scavalca i limiti e i muri delle istituzioni.
La predica avanza con durezza e – in alcuni casi – con evidente antipatia personale: abbondano gli attacchi politici, non mancano gli attacchi personali (come quello sull’utilizzo della religione e dei rosari ai comizi), piegandosi verso una seconda parte più programmatica, pericolosamente vicina ad un discorso di insediamento e ad un’esposizione di linee di indirizzo politico.
Così l’avvocato del popolo – che in questo caso sembra più un giudice o la pubblica accusa – lascia la parola all’ex Ministro dell’Interno Salvini, che tentenna su quale posto occupare: lo scranno da senatore o la poltrona da ministro? Sciolto il dubbio – che simbolicamente restituisce l’immagine di un leader che ancora non sa “de che morte morì” – la difesa prende parola: altro che inaffidabile, altro che lazzarone! Le banche, Renzi, Lotti, Boschi, Frau Merkel, gli immigrati, l’Europa, Saviano. Il repertorio è noto, e il discorso rientra perfettamente nei ranghi e risponde alle strategie degli ultimi anni. Volere, fortissimamente volere, un nemico, un “altro”, un pericolo davanti al quale compattarsi, contro cui invocare mobilitazione, verso il quale tendere per aumentare la paura, la tensione, il pathos lirico. Se Conte parla prima a Salvini, e poi al PD, Salvini parla alle masse, agli elettori propri e altrui (“commercianti, pompieri, insegnanti, agricoltori, poliziotti, fruttivendoli, pescatori”), alla folla fin troppo spesso invocata. L’apoteosi è servita: è l’accusa di voler congiurare associandosi ai nemici rossi di lunga data, lo sdegno mostrato e ostentato davanti alla sola parvenza di possibilità. E così, come greci coreuti, ecco il levarsi di voci multiple dei senatori del PD. Favorevoli, recalcitranti o indignati poco importa, la scena continua, gratificando il provocatorio antieroe e preparando il clima per l’ingresso in scena del corifero: Matteo Renzi si alza, ed esprime enorme preoccupazione per il clima d’odio, si racconta protagonista di un accordo di cui non farà parte – e allora perché parlarne? mistero – ma i riflettori, si sa, sanno essere impietosi nell’accendersi e nello spegnersi e, soprattutto, nel consegnare all’oblio.
Un oblio che forse, in questa situazione, a queste condizioni, sarebbe più auspicabile che evitabile, come un’opera – commedia o tragedia, dipende dai punti di vista – che prende vita senza forma, senza firma, senza nome e senza paternità che, però, resterà negli anni a venire.
Omero, scansati.