Questo paese e’ un blues senza fine. Un canto profano, religioso, qualcosa di lontano ed ancestrale che affiora nelle notti d’estate. Un blues che si mescola alle cantilene sussurrate nelle chiese in collina, le porte di legno pesante con luci delle candele che affiorano nell’oscurita, attraverso tende di broccato rosa sdrucite e sbiancate dal solleone.
Un blues nella notte italiana, le finestre aperte delle case del mare senza condizionatore. I cani che latrano e che abbaiano come se stessero arrivando un temporale od un terremoto, il rumore delle bottiglie che, nottetempo, qualcuno, da qualche parte fra i pini e i faggi, infila in una campana del vetro del riciclaggio. Qualcuno con una busta con le bottiglie tutte lavate ed asciugate, con l’etichetta rimossa diligentemente, come se fosse un atto ufficiale, quel lanciare oggetti nel foro del cassonetto per sentire infrangersi in mille pezzi.
Un blues di ragazzi che cantano in qualche giardino, o il blues hispanico che si irradia da balere distanti, un merengue sfilacciato ed insulso, ma con ritmi spaccagambe, per la generazione del primo-secondo-dolce-ballo, vini inclusi.
Un blues nella notte italiana di fine legislatura, o cosi’ sembra. Un blues per un paese che affoga nel caldo umido, le foto sui social che raccontano un mondo surreale e distante dalla realta’, che siano i piatti di pasta o che siano i tramonti filtrati e trattati a seconda del gusto del momento. La notte di questa repubblica in cui tutto appare legittimo, quando niente lo e’.
Un blues in cui mi specchio. E cerco le somiglianze fra me e questo paese di anziani, cani, badanti e imprenditori indecisi. Un paese dove tutti hanno una ricetta buona per tirare qualche altro anno a campare, qualche altro anno per rimanere sulla cresta dell’onda. Un blues di transumanza, transizione, di paura e di celebrazione di assenza del senso, del respiro. Un blues per il breve periodo, un blues metropolitano, piu’ Chicago style che New Orleans. Un blues ripetuto, senza accordi in levare.
Un blues notturno, denso, senza speranza. Nero. Le facce dei politici su tutti i giornali, facce serene di gente in vacanza, abbronzata, che beve drink, che fa sport, in bikini, che sorride in giardini di case al mare da borghesia alta pariolina. Con gli aghi di pino ordinatamente sparsi su pratini verdi, verdissimi nonostante le ordinanze comunali sull’uso dell’acqua pubblica. Gente incapace ad intonare un blues, perche’ tutto deve essere in levare, ritmi forsennati da discoteca o qualche canzone di moda fra i figli.
Invece, appena fuori da quella immagine perfetta, carina, il paese canta il Blues. Nelle pinete delle zone agroindustriali. E nei sogni di mille falene che danzano attorno all’ennesima luce blu nella notte senza fine. Un blues senza sconti e senza interessi. Un blues che varrebbe ancora qualcosa se potessimo piangerlo assieme.