Il Governo Conte II, al completo dopo il giuramento dei sottosegretari, conta al suo interno oltre il 34% di donne sul totale dei componenti. Tra questi, figure di alto calibro come Luciana Lamorgese, attuale ministro dell’Interno, già prefetto di Venezia e Milano, o Paola Pisano, ministro per l’Innovazione tecnologica e la Digitalizzazione, accademica titolata considerata tra le donne più influenti nel digitale in Italia.
Figure importanti, che rendono il Governo Conte II il migliore nel tema (e nelle modalità) della rappresentanza femminile in politica.
Fare peggio del governo precedente era difficile: secondo i dati raccolti da Openpolis, il primo Governo Conte aveva una percentuale di circa il 17% di donne, dato più basso dei governi Renzi (27%) e Gentiloni (28%).
Il dibattito sulla rappresentanza femminile in politica è ricorrente, ed è un tema su cui l’Italia non gode di grande salute: il Global Gender Gap Report 2018 ci posiziona al terzultimo posto per tasso di partecipazione politica femminile sui 20 paesi dell’Europa occidentale. Peggio di noi, solo Grecia, Malta e Cipro.
Un risultato impietoso, che spinge a prendere in considerazione misure per incentivare e per facilitare l‘accesso delle donne in politica. L’imposizione delle quote di genere inserite negli ultimi anni ha segnato sicuramente un passo avanti, ma ha anche dei risvolti negativi: può accadere che alcune donne siano indicate “solo” in quanto tali. Questa dinamica, paradossalmente, rischia di distorcere il concetto di parità: il genere stesso non viene considerato nel giudizio sul merito o sulle capacità di una persona.
Per questo, uno dei grandi scalini da superare è lo schema rigido che Katie Jamienson chiama double bind effect. Secondo Jamienson una donna che vuole entrare in politica, per essere considerata, deve rispondere a due modelli: il primo è quello della donna in carriera, fredda, competente; il secondo rimanda invece all’immagine di una donna attraente, appariscente, e quindi degna di visibilità.
Uscire da questo schema comporta il rischio di non essere considerate credibili; per superarlo, non essere etichettate come deboli e ricoprire lo stesso ruoli di leadership, ci si sente obbligate a dimostrarsi aggressive. Bisogna però fare attenzione a non superare dei limiti. Le conseguenze di questo disequilibrio sono paradossali: le caratteristiche tipicamente femminili devono essere sempre presenti, portando una ipervisibilità e un’attenzione al limite del sessismo: le scarpe, la borsa, perfino un tailleur vengono analizzate, scrutate e commentate, così come accade alle giacche di Rotondi o ai completi di Giannino o, al tempo, al total black del Cav.
In questi casi gli attacchi dovrebbero essere ridimensionati, poco considerati, relegati al commento frufru dei rotocalchi e dei satirici commentatori da Twitter. Ora, invece, anche un commento – odioso, sia chiaro – ad un tailleur innegabilmente visibile diventa un modo per urlare alla lotta di genere, al dàgli al maschio, alla ennesima polarizzazione e semplificazione in cui l’essere donna diventa un grido di battaglia, un vanto politico, un’immunità alle critiche che toccano chiunque sieda a favore di telecamera. Se tutto è sessismo si rischia che niente sia sessismo, e si perde di vista un tema più ampio, più complesso e profondo: servono più leader donne in politica, così come servono più persone brave in politica indipendentemente dal sesso.
La vera sfida delle donne oggi al governo non è promuovere forme di leadership che ricalcano immagini trite e ritrite, ma pretendere di essere giudicate bene o male in quanto membri di un eseutivo- non solo in quanto donne. I curricula degli attuali ministri fanno ben sperare: persone e professioniste preparate, competenti e desiderose di mettersi alla prova. Noi le giudicheremo senza promuovere “scontistiche” basate sul genere e – si spera – senza la spada di Damocle delle accuse di sessismo: altrimenti il rischio, quello vero, è di far sembrare l’essere donna uno scudo di immunità.