di Francesco Carini – Homo Sum
Pasolini godeva della rara capacità di esprimersi con più mezzi a un alto livello di professionalità: come un re Mida, o un uomo d’orchestra, sapeva trasformare e adattare alle proprie esigenze qualsiasi materiale gli passasse per le mani.
(Gian Piero Brunetta in Il cinema italiano contemporaneo – Da “La Dolce Vita” a “Centochiodi”)
Da quel maledetto 2 novembre 1975 sono trascorsi 44 anni, giorno in cui Pier Paolo Pasolini fu barbaramente ucciso in una vicenda mai del tutto chiarita in toto. E da allora, probabilmente non c’è più stato nessun intellettuale in grado di far cadere il velo di ipocrisia che copriva il volto del Bel Paese, con uno stile originale, tipico di quel genio messo quasi sempre in discussione da giurie varie, ma che, attraverso la potenza della letteratura in una prima fase della sua carriera, e del cinema nella seconda, ha posto in evidenza in modo certamente non convenzionale il lato oscuro della società e delle periferie, (in particolare quelle romane), che ben conosceva e che, come oggi, danno fastidio perché mostrano il fallimento della politica, soprattutto di quella, sulla carta, più progressista. Il politically correct sicuramente non gli si addiceva, e sarebbe stato davvero interessante sapere cosa avrebbe pensato dell’incremento della povertà e delle disuguaglianze in Europa e del loro pericolo sminuito, in un contesto in cui buonismo e ”cattivismo” appaiono (con le dovute differenze) quasi come due facce della stessa medaglia, inermi o disinteressati di fronte ai rischi dell’esclusione sociale di parte della popolazione europea.
Pasolini nella sua attività non si è occupato solo degli ultimi, ma in questo spazio ci si concentrerà su Accattone e, assai brevemente, Mamma Roma.