Questo è l’ultimo decennio in cui possiamo salvare il mondo. Vogliamo affidarne i destini a Trump, Boris Johnson e Bolsonaro? Per salvare la democrazia (e noi stessi), forse l’unico modo è delegarla ad algoritmi.
di FILIPPO LUBRANO
L’intelligenza artificiale è già entrata in politica. Solo che non ve ne siete accorti.
E non ve ne siete accorti perché l’intelligenza artificiale ha assunto sembianze umane – troppo umane, secondo alcuni. Ad ogni modo, dietro Salvini che mangia la Nutella per poi sputarla se non ha nocciole italiane, ci sono i suggerimenti-diktat gli algoritmi implacabili della Bestia, questo è noto.
Ma anche dietro il più impronosticabile successo politico italiano dell’ultimo decennio – il Movimento 5 stelle – c’è una raccolta e un incrocio accuratissimi di Big Data, condotti con una certa expertise della famiglia Casaleggio.
Cosa comunicare, come comunicarlo, con che tono, con quali tempi: più che da motivazioni ideologiche, la politica già oggi è guidata da logiche terribilmente razionali sull’individuazione del proprio mercato di riferimento, e da una proposta di marketing non dissimile da quelle utilizzate nel marketing esperienziale.
I politici, queste canaglie
Ora, il salto da fare è un altro, però.
Secondo un sondaggio Ipsos – e non solo secondo loro – il politico è la professione di cui ci fidiamo di meno in assoluto. A ridosso ci sono solo i pubblicitari, appunto – ma non ridete se siete giornalisti, perché il decennio delle fake news ha lavorato ai fianchi anche la vostra credibilità.
Riteniamo che i politici siano più fallibili, corruttibili, deprecabili di qualsiasi altro uomo preso a caso dalla strada. Eppure, nelle democrazie rappresentative che governano la maggioranza delle persone che abitano nel mondo, diamo loro le chiavi dell’educazione dei nostri figli, del nostro sistema pensionistico, della promulgazione di nuove leggi che dovrebbero regolare la nostra civiltà stando al passo coi tempi.
Con risultati, possiamo dircelo, spesso disastrosi.
Raramente come in quest’epoca recente lo stato d’animo dell’elettore razionale moderato è stato più abbattuto. Il populismo che impregna ogni livello della società ha prodotto mostri che pensavamo di aver sconfitto definitivamente nel ‘900: il Presidente della Nazione più ricca e influente del mondo parla come il macellaio sotto casa; gli inglesi votano per isolarsi vanificando decenni di sforzi immani di unione per poter contare ancora qualcosa in un mondo sempre più polarizzato su USA e Cina; a Bolsonaro non sembra importare poi molto se la foresta amazzonica viene disboscata e le tribù degli indigeni scompaiono.
Si ha la sensazione di essere bloccati nello stesso livello di un videogioco in cui qualsiasi azione si faccia è sbagliata, e non cambia l’esito finale. Non è la prima volta che si sente qualcuno auspicare un “patentino dell’elettore”, ma quest’esigenza non è mai stata così diffusa come ora. Il tutto, mentre si vedono sviluppare modelli non democratici come quello cinese che – con tutte le storture del caso – producono però un dinamismo economico e sociale che in Occidente abbiamo scordato potesse esistere – da cui la narrazione di una crisi perenne, in un mondo che in realtà in valore assoluto sta crescendo.
L’esperimento Andrew Yang
In questo contesto, la proposta più innovativa in assoluto viene dalla campagna presidenziale delle primarie democratiche statunitensi, e più precisamente da Andrew Yang, che propone una Robotax per le grandi aziende che automatizzano sempre più – perché spesso è totalmente sensato farlo: i robot svolgono più efficientemente ed efficacemente lavori che per l’uomo sarebbero nella maggior parte dei casi alienanti – che crei poi un “freedom dividend” da 1.000 dollari al mese per ogni americano, dal senzatetto del Bronx fino a Bill Gates. Una misura certamente divisiva e in parte provocatoria, ma che è resa molto più interessante proprio perché partorita dalla pancia dell’America che innova: il figlio di immigrati taiwanesi, startupparo, che si rivolta contro il sistema che lo ha cresciuto, nutrito e educato.
Quella del reddito di cittadinanza in salsa americana non è l’unica innovazione portata da Yang, che cerca di far finalmente arrivare sul tavolo della discussione politica argomenti che raramente l’hanno sfiorata – vi ricordate le pessime figure del Congresso nell’altrettanto imbarazzante processo a Zuckerberg?
Ecco, è questo che vorremmo metterci alle spalle nel prossimo decennio. Vorremmo una politica che sappia affrontare i problemi dei nostri tempi, parlandone la stessa lingua. E avendo le competenze per risolverli.
E allora, in un mondo in cui le macchine hanno iniziato a batterci prima a scacchi e poi a Go, ma ora sembrano sulla strada per far meglio di noi anche molti lavori intellettuali, perché non ipotizzare un primo Partito dell’Intelligenza Artificiale? Dove noi come utenti finali imputiamo in ingresso il nostro obiettivo – l’incremento della felicità collettiva, secondo molte costituzioni, ma le visioni possono essere declinate secondo le gradazioni politiche – e lasciamo poi alle macchine la soluzione del problema, il “percorso ottimo”, come si dice nelle lezioni di ingegneria (gli ingegneri godono di un tasso di credibilità di quasi il 90%), che trovi il compromesso più ragionevole per tutti, a partire dalle risorse disponibili?
La transizione
Nei primi anni, per guidare la transizione, potrebbe avere senso mettere comunque a capo del movimento una faccia nota – ecco, magari ne sceglierei una un po’ più rassicurante di quella del Capitano -, ma dovrebbe essere chiaro che il grosso del lavoro di programmazione e di implementazione delle politiche non dipenderebbe, sin da subito, da esseri umani, ma da macchine. Che, al netto della malizia iniziale di chi le programma, e del complottismo diffuso, dovrebbero avere il non trascurabile pregio di essere incorruttibili, infallibili, e imparziali.
“A regime”
Poi, a regime – un termine che in questo contesto, lo capiamo, può mettere un po’ di angoscia, ma comunque – una volta “raggiunto il potere”, si potrebbe iniziare a lavorare su un Partito che prescinda totalmente dagli umani, e che deleghi alle macchine non solo il compito di risolvere i problemi, ma anche di definirli, e di ordinarli per priorità. Un’era che qualcuno potrebbe essere tentato di definire come “post-politica”, o almeno “post-democratica”, ma che invece potrebbe ridefinire il concetto stesso di gestione della res publica, liberandolo dalle limitazioni dell’umano.
Come? Pensate che un Partito “artificiale” non vincerebbe mai le elezioni? Può darsi. Allora cominciamo a impostare la funzione-obiettivo sin da ora, e vediamo cosa ci suggerisce l’algoritmo. E prepariamoci al golpe delle macchine.
Perché se è vero, come la maggior parte dei climatologi afferma, che abbiamo ancora dieci anni per salvare questo Pianeta, non possiamo più permetterci di essere così romantici (o meglio: incoscienti?) da affidarne il destino a un elettorato che, a questo punto, siamo fuori tempo massimo per formare.
Filippo Lubrano