Servono nuove analisi della domanda sociale, non giochetti di marketing elettorale
Stefano Rolando
Sugli esiti elettorali in Emilia Romagna le riflessioni che non si limitano a esultanze o sconforti – ci sono, a guardar bene tra tanti commenti – sono un passaggio utile per contribuire al cambiamento di clima. Che è già una componente stessa del risultato, se non imprevisto certo dubbio fino alla fine. Salvo che proprio quel “cambio di clima” (Sardine comprese) ha spostato alcuni fattori.
Ha spolpato di più il voto alla confusionaria presenza dei 5 Stelle; ha radicalizzato e portato al voto più elettori magari maldisposti premiando un po’ di più Pd e Lega; ha addirittura prosciugato il bacino elettorale di Forza Italia (che fu quello di Guazzaloca); ha disegnato una regione che è stata “doppia” finora tra ovest e est (Emila e Romagna) e che ora si ritrova “doppia” piuttosto tra città e campagne.
Questi commenti affiorano nel dibattito e vanno ricomposti. Così come affiora meglio il ritratto di un politico furbo e compulsivo come Matteo Salvini, che cova sempre ormai l’idea di “épater le bourgeois” (meravigliare a buon mercato la gente), cioè mettere le mani sui fianchi e produrre una pernacchia ogni volta che vede davanti a sé qualche damerino o damerina, in cravatta o tailleur, che gli produce un sentimento antiborghese di limpida tradizione neofascista.
Città e campagna
Ma anche questo ritratto contiene componenti che si saldano con le analisi strutturali.
Mettete insieme questo spunto su Salvini-impunito e volgarotto con il tema che sul Corriere della Sera di oggi Marco Imarisio tratta molto bene: “Città e campagna divise dal voto”.
Un tema che giustamente viene proiettato su una linea di tendenza che va al di là del caso regionale.
La somma dei due ragionamenti ci restituisce l’evoluzione di un modello che non si può rinchiudere solo nell’avvio del bipolarismo Pd-Lega, invocato da Franceschini (argomento che ha il suo perché, ovviamente, dopo il voto in Emilia Romagna e in Calabria), perché quando si parla di scontro tra città e campagna la memoria va lontano, molto lontano.
Nella ricca Lombardia salvo Piero Bassetti – il presidente fondatore, milanese doc ma anche buon conoscitore del territorio e con residenza di elezione tra le valli lecchesi – tutti i presidenti sono stati espressione di quel sistema extrametropolitano che tuttora viene chiamato “contado”.
E in aggiunta va detto: non a caso. Perché imbrigliare la diffidenza se non l’insofferenza della provincia nei confronti della “grande città” è stata una buona teoria democristiana per stabilizzare i rapporti rivelatasi utile a qualunque quieta governabilità.
Non siamo un caso isolato
Lo sguardo alla Francia dei gilet gialli o alla Gran Bretagna della Brexit (lasciamo perdere qui il gigantesco esempio di Trump) ci offre immagini precise di dove porta in Europa oggi quella diffidenza ovvero insofferenza: a votare contro gli interessi delle città in politica estera, a protestare contro regole fiscali e del lavoro che in provincia sono vissute come strangolanti; a fare emergere ogni razzismo; a parlare con linguaggi bannati dalle culture universitarie e adatti al luogo di socializzazione ancora forte nelle periferie e nelle campagne: le osterie.
A Bologna il sistema borghese fa alleanza con il ceto medio stabilizzato e schiaccia la Lega. A Goro il ceto medio impoverito, alimentato da paure (migrazioni, sicurezza, lavoro, prezzi, consumi) si salda con l’ibridazione ancora proletaria e il voto alla Lega schizza sopra il 70%.
Il futuro prossimo della politica italiana non si risolve più – a questo punto – con formule di alleanze tra sigle di partiti, partitini e movimenti. Si affronta con un rinnovamento dell’analisi sociologica e socio-politica sulla dinamica attuale delle classi sociali (la sinistra è ferma a Sylos Labini, la destra è più avanti pragmaticamente ma legge poco e quindi non sa dare nome a cose che imbrocca meglio). Per interrogarci su come il processo di infedeltà elettorale che si è innescato (balzi di voto, scomparse di voto; pieni elettorali, vuoti improvvisi, eccetera) possa essere fermato da una progettazione adesso più fondata razionalmente sul cambiamento della domanda che sul marketing frenetico dell’offerta.
Due argomenti
Si dirà che rozzamente questa analisi la si sta già facendo. È vero, ma ci si limita a ragionare in “politichese”. Mentre invece bisogna risolvere cose concrete facendo proposte di politiche sostanziali. Lo spazio di un articolo non permette troppi esempi. Ne faccio due soltanto.
Anziché gingillarci con il tema delle città metropolitane – da fare o da non fare in relazione a soldi che non ci sono o a leggi scritte male – è venuto il momento di chiedersi se le maggiori città italiane (Milano in testa) debbano oppure no riprogettare questo contenitore di alleanze tra metropoli e grande hinterland non per ammutolire del tutto la provincia (si legga così il forte richiamo di ieri dell’arcivescovo di Milano Mario Delpini lanciato eccezionalmente dai banchi del Consiglio regionale che lo ospitava: “Troppa enfasi sulle eccellenze di Milano, attenzione sproporzionata su Milano mentre la Lombardia diventa un dormitorio”). L’obiettivo di un nuovo vero “patto” (l’ultimo fu quello tra capitale e lavoro nella creazione delle mitologiche aree industriali decentrate) deve essere rassicurante per quelle aree diventate, è vero, dormitori. Progetto come “Città della Salute” a Sesto, come il “polo tecnologico” a Pero, eccetera, sono la materia di progetti che rifanno alleanza e danno senso identitario a tutti.
Il secondo esempio riguarda l’ibridazione etnica nei quartieri, nelle periferie e nei centri minori.
O si subisce questo processo – come si è subita senza fare niente tutta la vicenda migratoria – o finalmente si lavora, premiando così anche gli eroici insegnanti, per promuovere, spiegare e sostenere l’integrazione, cioè il laboratorio anti-ghetto che ci può salvare in futuro da una “bomba periferie”, come Belgio e Francia insegnano. Senza il sapere, il denaro e anche il sentiment civile delle città, questi progetti non si fanno. Lasciando navigare i nostri sindaci, anche quelli più ben disposti, verso l’indistinto.
Ma nell’indistinto, chi ha più speranze di smarcarsi e piazzarsi è sempre lui, il venditore di pernacchie a buon mercato.