Una giornata di indagine per le strade della città cominciata con la lettura del trentunesimo capitolo dei Promessi Sposi in cui Manzoni a proposito dell’epidemia di peste del ‘600 parlava di “un tratto di storia patria più famoso che conosciuto”, cioè ereditato più per la sua clamorosita’ che per le conoscenze dei fatti. E finita con l’apocalisse televisiva che sceglie il virus misterioso per le sue nuove maratone.
Stefano Rolando
Sul rapporto tra Milano (la mia città, dove in questi giorni mi trovo, pur in un periodo di andirivieni) e la “peste cinese”, ovvero questo Coronavirus che ha prodotto la prima settimana di “coprifuoco”, vengo messo in allerta di buon mattino da un amico giornalista che mi chiede un’opinione – per conto di una agenzia di stampa – su un tema di cui mi occupo da tempo, il brand come fattore di sintesi tra identità e immagine. E la domanda è ben comprensibile in questo momento: Milano rischia davvero un indebolimento di brand in questa vicenda che colpisce il Nord, le sue città simbolo, il suo trovarsi (in Italia e nel mondo) nella parte del “colpevole”?
Dapprima la mia risposta è un po’ confezionata. Dico che non si può prescindere dall’inquadramento di metodo fatto dal sindaco Sala: “Le ordinanze non si discutono, si eseguono”. Certo si potrebbe leggere una sfumatura critica in questa secca dichiarazione. Ma c’è anche un principio di sana e responsabile cultura dell’emergenza. In questi casi filiera corta, cortissima. Con occhi aperti tuttavia al giusto adattamento.
Poi sappiamo che c’è il “cigno nero”. Cioè il tracciato del destino, che magari va diversamente dalle intenzioni dei decisori. Così che il rinvio di due mesi del Salone del Mobile può apparire uno di questi casi, che però peserà qualcosa sull’effetto immagine nell’immediato, pensando alle migliaia di operatori e di giornalisti pronti a venire che invece rimandano il viaggio grazie a una informazione che contiene, diciamo così, l’ammissione dei milanesi stessi circa il pericolo.
In realtà la cifra del -0,2% di danno sul PIL nazionale è girata quasi subito, prima di blindare territori interi. Il rischio economico insomma è stato subito chiaro. Adesso quella cifra si gonfia, di ora in ora. Le disdette turistiche oggi (26 febbraio) raggiungono il tetto del 40% che sta colpendo tutto il paese non solo le zone contagiate. E a fronte di ciò anche un provvedimento di spostamento di eventi assume il suo senso.
Dopo tre giorni di chiusura di molti spazi pubblici chissà a quanto è giunto quel 0,2%. Certo è che il ministro Gualtieri sta facendo il conto. Ma sono le 9 del mattino, comincia adesso la giornata e scelgo di capire i comportamenti, i sentimenti, l’onda comunicativa, se mi riesce cerco di ritrovare il detto e il taciuto, insomma il rapporto tra realtà e percezione, prima ancora di cercar di capire la ragioneria dell’emergenza.
Il vuoto pneumatico della città
Mi misuro intanto con il vuoto pneumatico delle strade, dei mezzi pubblici, dei luoghi di spettacolo. Degli stessi bar vuoti, delle panetterie che oggi perderanno circa metà degli introiti senza avere ancora deciso di ridurre seriamente la produzione.
Un occhio, stando in tram, va sulla pagina 521 dei Promessi Sposi, che mi sono portato dietro in edizione tascabile. Manzoni nei capitoli 31 e 32 racconta la “peste a Milano” del ‘600. L’anno esatto è il 1630. Il dramma durerà fino al ’33. Il Ducato di Milano fu tra i più colpiti in Italia, già provatissimo dalla carestia e dal passaggio dei Lanzichenecchi. Le cronache del medico Alessandro Tadino e del canonico e medico Giuseppe Ripamonti registrano dati enormi. Nella sola Milano (seguita a ruota da Venezia) muoiono 64 mila persone su 250 mila abitanti. In Italia settentrionale tra il 1630 e il 1631 muoiono per la peste 1.100.000 persone su una popolazione complessiva di circa 4 milioni di persone. Uno su quattro. Il commento del Manzoni vale tutto il suo romanzo. La sintesi lapidaria coglie una grande modernità mediatica: “un tratto di storia patria più famoso che conosciuto”. E con questa chiave cerco di capire se in questa storia – che presenta per ora dati epidemiologici modesti, ma tratti di ansia collettiva enormi – sta prevalendo più il clamore o più la conoscenza. Poi, se riuscirà a emergere una risposta, si potrà anche dire con più argomenti se la forte immagine della città dell’Expo, della post-industrializzazione, della rivoluzione dell’attrattività, resta intatta, ovvero scalfita, ovvero offesa.
Certo si prova la strana sensazione di un coprifuoco in qualche modo esagerato. Ma pare al tempo stesso chiaro il senso di responsabilità, unito a un certo obbligo istituzionale, di avere aderito alle ordinanze concordate da governo e regioni. Ma c’è anche vigilanza, quindi uno sguardo flessibile agli andamenti reali. Con l’idea che se non ci si fa prendere dalla paura, non ci sarà nemmeno cocciutaggine nell’attuazione delle ordinanze. Infatti le dichiarazioni del Ministro Gualtieri del 25 sera vanno verso quella flessibilità. Dopo la prima settimana di blackout generale – dice – si moduleranno i provvedimenti facendo più distinzioni. E qui – penso – il principio di auto-conservazione della città mostrerà i suoi argomenti per favorire il ritorno alla normalità.
Il Duomo resta chiuso, tutte le messe in città sono sospese. La Chiesa di Santa Maria delle Grazie, non quella di Leonardo, ma quella seicentesca sul Naviglio (che proprio nel tempo della peste installò l’immagine di una “Madonna miracolosa”) tiene ostentatamente la porta centrale aperta. Forse nella memoria manzoniana del cardinal Federigo che impose ai parroci di assistere i contagiati.
Il modello resta quello del “chiudersi in casa”
La ricognizione del pomeriggio, tuttavia, terrà aperto più di un dubbio.
La città aderisce a fondo al modello del “chiudersi in casa”. La stessa immediata corsa all’accaparramento di generi alimentari nei supermarket – criticata dal sindaco – ha avuto questa motivazione. Strade e mezzi pubblici sono ora la controprova. Ci vuole il buon senso del preside del Liceo Scientifico Volta, il prof. Domenico Squillace, che scrive una lettera divenuta virale ai suoi studenti: “Voglio dirvi di mantenere il sangue freddo, di non lasciarvi trascinare dal delirio collettivo, di continuare – con le dovute precauzioni – a fare una vita normale. Approfittate di queste giornate per fare delle passeggiate, per leggere un buon libro, non c’è alcun motivo – se state bene – di restare chiusi in casa”. Nelle università però il ricorso alla riorganizzazione dei corsi in forma digitale e da remoto si mette in movimento lentamente. E proprio oggi arriva la determinazione di allungare la chiusura ancora per una settimana.
Così che interrogarsi diventa lecito e sano. Le università – che contengono al loro interno anche tutta la scienza medica della città – sanno qualcosa in più delle informazioni circolanti? Oppure sta passando la linea di prudenziale prevenzione perché rispetto allo scoppio dei principali focolai non sono ancora passati i 14 giorni di decorso ed emergenza di questo tipo di virus?
Nella giornata apprendo da telefonate di amici un elemento paradossale. Gli ospedali si vanno svuotando. Salvo l’oncologia, pare che la maggior parte dei reparti non accetti pazienti. Ortopedia, pediatria, cardiologia, eccetera, meglio tenere i reparti vuoti perché ciò che è stato considerato il problema principale è, nel caso di contagio diffuso, l’insufficienza delle strutture sanitarie. La notizia circola un po’ di straforo. Ma non c’è infermiere o portantino che non la vede nei tanti efficienti ospedali della città
Ed ecco che in assenza di dati epidemiologici peggiorati ma anche in assenza di valutazioni autorevoli di oggettiva e giustificata tranquillità di contesto, con la memoria che va ai rialzi di allerta per pandemie recenti (quella del 2009 di tipo globale che giunse al sesto livello di allarme conclamato in fase ancora di non disponibilità dei vaccini adeguati) chi è in cerca di notizie strutturali sul rapporto realtà/percezione si imbatte in altri dati emergenti. Per fare un solo esempio, gli imprenditori della logistica e dell’autotrasporto cercano un rapporto diretto con i decisori regionali perché – soprattutto quelli che operano nei trasporti alimentari rifornendo quelle catene dei supermarket che hanno in questi giorni domanda crescente – registrano la moltiplicazione fino a sei, sette volte di assenze del personale (magazzinieri e autisti) coperti da un certificato medico a volte conseguito senza visita reale per nascondersi dietro a quelle influenze di stagione che negli anni scorsi avevano un’incidenza al massimo del 10% della forza lavoro. Oggi – proprio oggi, 26 febbraio – raggiunge il 70%. Saltano le consegne, saltano i rifornimenti, saltano i contratti. La situation room dei decisori coglierà in questi giorni questi andamenti?
Girano in giornata altre notizie, che riguardano questa strana mescolanza tra dati concreti e immaginari. A un giovane laureato lombardo selezionato per gli stages Shumann al Parlamento europeo pronto a partire per Bruxelles arriva la comunicazione urgente che il suo stage “è annullato”. Anche ad un veneto succede la stessa cosa. A un ragazzo di Palermo (in realtà bocconiano, ma con residenza a Palermo) non arriva il veto e parte. Apriti cielo delle famiglie. Ma in serata il presidente Sassoli riesce a risalire sullo sconsiderato provvedimento degli uffici legali del PE e i veti vengono ritirati.
Nel vortice informativo e interpretativo
Si va verso il tramonto. E la tv in particolare – con le sue non tramontate maratone – ripercorre questa stessa giornata con il potere di far convergere altre storie, di chiamare in campo testimoni e opinionisti, di uniformare le paure di chi si è chiuso in casa con la paure di chi (ora sud contro nord) non gradisce l’arrivo al sud o comunque altrove di “quelli del nord”. E poi le porte chiuse agli italiani in mezzo mondo. E poi ancora l’interrogare i virologi, nuovi protagonisti dei talk show, che hanno un format di racconto quasi convenuto: comincia con la minimizzazione e con la ferma dichiarazione del “tutto sotto controllo” per poi cedere alle insistenze dei giornalisti e per concludere con “tutto ciò detto bisogna dire che la situazione è grave”.
Lo sdoganamento di un modo di pensare con la testa del preside del Liceo Volta (che appare una legittima opportunità) oppure l’induzione a pensare con la testa di ciò che suggerisce la concitata emergenza dei politici riuniti in forma straordinaria, alzando a volte la voce per fare rispettare gerarchie di competenza, appaiono antagonistici modi di porsi di fronte alla crisi. Poi la tv racconta il buon senso filosofico del prof. Umberto Galimberti, che mostra la manipolazione comunicativa che ispira il tentativo di alcuni paesi (governi, media e popoli) di delimitare altrove (in questo caso l’Italia e soprattutto l’Italia del nord) il “vero rischio”, per tentare di produrre un artificioso esorcismo. Ma lo condisce con la rievocazione delle storie assassine di Ebola. Il copione della contraddizione è così definitivamente scritto. E ancora, verso le ore piccole, si affacciano più raffinati e consapevoli intervistati che cominciano a spiegare che siamo in presenza di una modesta e maliziosa influenzina. Che così appare e così in verità è. Tanto che non aggredisce i bambini che hanno buona capacità immunitaria ma potrebbe finire per fare stragi di anziani, meno immuno-protetti.
A fine giornata matura il bilancio che sarà domattina sui quotidiani: quattrocento contagiati, in dieci regioni, con dodici decessi connessi a pregresse patologie.
Deduzioni
Le deduzioni della confusa ma realistica giornata – pensando che non siano pochissimi ad usare il tempo liberato per mettere a prova un po’ di discernimento – riguardano naturalmente anche il governo di questa emergenza. Non se ne fa qui bieco contenuto di polemica politica, ma questo governo – ovvero questi governi – contengono la contraddizione di una certa confusione e di un certo pragmatismo del nostro tempo.
Anche se la preparazione ad affrontare le crisi e le emergenze – come sostiene da un secolo la migliore scienza politica – appartiene alle più preparate e soprattutto più allenate classi dirigenti. Non a quelle improvvisate e non addestrate (culturalmente, psicologicamente, sociologicamente, economicamente, tecnologicamente, eccetera) proprio nella varietà delle tipologie delle emergenze del nostro tempo. Arriva il momento in cui anche questa lamentazione, che pareva un modo un po’ nostalgico di vedere il peggioramento della qualità del nostro sistema decisionale, si trasforma in una preoccupazione dura, visibile, che ci mette più a rischio, anche se va concesso per lo più ai decisori di oggi la virtù della dedizione e di un certo impegno.
Scuole e università chiuse non presidiano ora in nessun modo la necessità di spiegazione e di accompagnamento dei giovani (e attraverso di essi anche delle loro famiglie), cose che in vicende di questo genere avrebbero grande rilievo, in un certo senso anche equilibrando la sola fonte in pista rappresentata – con il proprio connaturato allarmismo e spettacolarismo – dal sistema dei media. Anche per questo il sistema educativo dovrebbe trovare immediatamente un ruolo attivo nel quadro delle vicende.
Ancora sarebbe molto importante veder crescere la domanda pubblica di buona statistica, perché se ai cittadini stanno bene alcuni dati impressivi e qualche sondaggio, al posto di un modo serio e divulgativo di utilizzare dati validati e comparativi, stiamo tutti freschi. Quella domanda viene subito servita dal pressapochismo in carriera. Mentre la qualificazione della domanda (ma come si fa a farla crescere?) farebbe sbucare un miglior giornalismo e una migliore politica. Oggi – nelle telefonate e nei confronti – molti a chiedersi di quali dati veri disponiamo.
Infine una deduzione può anche riguardare la eventuale (insisto sulla parola eventuale) penalizzazione di brand, dell’Italia e di Milano. E’ evidente che sia in atto uno strattonamento per il momento “di cronaca” dell’immagine italiana. Che rischia di avere in questi giorni un’imputazione di responsabilità magari superiore a quella che riguarda la Cina (di cui va ancora capita a fondo almeno la responsabilità informativa nella prima parte di emergenza dell’evento). Tuttavia “brand” inteso come evoluzione identitaria e di immagine comporta processi lunghi, per alcuni versi lunghissimi. Varie sono state le occasioni di eventi – a volte anche molto gravi – che pur non migliorando la reputazione del nostro paese e delle nostre città non la hanno neppure sostanzialmente modificata.
Inoltre è’ sotto gli occhi di tutti che la potenziale pandemia ha carattere planetario e non ci sono ragioni di scatenamento su uno solo dei tanti punti critici, neppure il più critico.
E’ legittimo pensare che se il comportamento della città si mostrerà pragmatico, generoso e assennato, questa vicenda porterà persino qualche zero virgola in più all’immagine di Milano. E insieme anche all’immagine dell’Italia. Certo per questo non dovrà consolidarsi uno specifico persistente sciacallaggio (oggi avvertibile e che abbiamo visto altre volte nei nostri confronti); così come non dovranno profilarsi ingiustificate ritorsioni che qualcuno potrebbe immaginare contro il nord Italia sospettato di razzismo.
Ora è sera, ventosa e tersa. E domani è un altro giorno.