L’emergenza Coronavirus ha prodotto moltiplicazione di informazioni, messaggi, annunci, fonti nel breve termine, che per quanto riguarda la comunicazione della politica, delle aziende e di tutti i soggetti scesi in campo prefigurano effetti nel lungo termine. Quali? Al di là delle considerazioni specifiche relative a ciascun flusso di comunicazione, e quindi per esempio alla assenza di brevità e chiarezza nelle disposizioni di governo centrali e periferici, il punto è il seguente: il ruolo di quelli che possiamo definire i soggetti comunicanti.
Questi soggetti su più livelli, talvolta in contrasto fra di loro per ragioni dettate dalle esigenze della politica più che dalle competenze tecnico-sanitarie (non sempre adeguatamente ascoltate o opportunisticamente ricevute), hanno prodotto negli stakeholder (cittadini, personale sanitario e scolastico, imprese) una tendenza all’incertezza, se non alla diffidenza, fino a uno sconcerto talvolta destabilizzante sotto il profilo della tenuta sociale. Ma hanno soprattutto reso più fragile la figura stessa del soggetto che comunica con l’onere e l’onore di informare.
L’accentramento al governo centrale della gestione dell’emergenza, che pur c’è stato come disposizione di massima (con 19 “eccezioni” prestabilite) si è in realtà declinato in uno specchio della realtà almeno amministrativa: voci centrali e regionali si sono sovrapposte nei contenuti e nei toni.
Ciascuno, il governo e le regioni in particolare, sono e saranno chiamati a risponderne in quanto soggetti informativi prima ancora che comunicatori: con quali competenze, efficacia, tempistiche, ragioni, hanno preso decisioni e le hanno comunicate e fatte comunicare? Non era forse meglio avere comunque una voce sola che, prima di rendere note le disposizioni nazionali, concordasse con i soggetti periferici le eventuali differenze in modo da dimostrare non solo condivisione ma anche conoscenza delle singole problematiche territoriali?
Se il comunicatore del governo viene contraddetto dai comunicatori delle regioni, chi vince? Nessuno, ovviamente. Ma sicuramente tutti perdono di fronte alla platea degli stakeholder che grazie ai social network oggi non sono più solo spettatori. Sì le piattaforme social hanno raccolto miriadi di conversazioni, commenti, interpretazioni su ogni dichiarazione rilasciata dalle istituzioni come previsto e prevedibile: essendoci solo i like e non gli unlike non abbiamo una sintesi quantitativa e immediata del sentiment di queste conversazioni. Con un esercizio più tattico e misurato al contesto la maggioranza delle aziende ha uniformato la propria comunicazione su aiuti e solidarietà a sanità, comunità territoriali, consumatori-clienti.
Soffermiamoci su quest’ultima. La comunicazione è stata: noi vi siamo vicini ANCHE ora.
Probabilmente era l’unica tipologia di messaggio affidabile alle campagne che, per diverse ragioni, sono state pianificate nel periodo emergenziale. Ma le aziende sono in grado di dimostrare coerenza fra ciò che hanno già fatto e faranno in termini anzitutto di sostenibilità, solidarietà, vicinanza e il messaggio che hanno inteso comunicare?
Perché una riflessione va fatta anche in questo caso: se non c’è reale corrispondenza fra soggetto comunicante (impresa, banca, assicurazione), comunicatore (pr, agenzia di pubblicità, marketer ma anche i dipendenti sul territorio) e ciò che viene comunicato, le conseguenze avranno il tracciato di un boomerang. In ogni caso, finita l’emergenza, i comunicanti saranno chiamati a rispondere. Con reputazione si intende la capacità di rispondere a un valore a cui non solo si aderisce: è necessario costruirlo e raccontarlo
È bene attrezzarci per tempo, in caso contrario sarà inevitabile affrontare una situazione di crisi forse ancora più difficile, perché ancora (se possibile) più indeterminata.
Lorenza Pigozzi
Adjunct Professor LUISS Business School
articolo tratto dal blog behindreputation