Non la Nato, ma l’Oms è l’ente internazionale che a Marzo ha dichiarato la guerra mondiale alla pandemia. Una guerra che l’Occidente non era pronto a combattere e che forse ha già perso. Tradendo senza precedenti i loro principi fondatori di libertà, le nostre democrazie che un po’ sapevamo decadute, dall’Italia all’America, impongono le stesse misure applicate nella grande dittatura comunista, la Cina. Con il lockdown fino a data da definirsi, da cittadini liberi siamo improvvisamente diventati dei condannati in contumacia in libertà condizionata. Uno shock. Come è potuto accadere? La spiegazione è tutta da cercare nell’arte, quel ramo sottovalutato della scienza fornitore dei modelli culturali universali. Proprio quelli che dovrebbero tenere in piedi le nostre economie sia in tempi di pace che in tempi, come adesso, di emergenza.
E invece la quarantena ha travolto anche il mondo cristallizzato dell’arte. Musei e gallerie di tutto il mondo chiusi, mostre milionarie congelate, fiere rimandate, ed è bastato a mandare il sistema dell’arte in cortocircuito e a smascherare tutte le presunte proclamazioni di innovazione, spesso frutto di immani investimenti pubblici. Una cosa sola si salva : il mercato, imperante e pervasivo come sempre. Qualche fiera d’arte – dopo lo scandalo della fiera europea Tefaf e la sua tardiva chiusura, un’incoscienza costatale caro in termini d’immagine – ha sperimentato le vendite online e le gallerie hanno registrato dei profitti.
Il mercato dell’arte, contrariamente a quanto molti dichiarano, non accenna a fermarsi ed è immune alla crisi sanitaria. Il resto delle attività dette culturali, con il train-train degli opening e altre strane usanze sociali, appare ora come uno sfondo narrativo rischioso (oltre che dispendioso) cui si puo’ benissimo fare a meno. È lecito chiedersi se questo standard non fosse superato da tempo? Con il lockdown, il dubbio è diventato un’evidenza: in questo sistema, a veicolare cultura non sono più le istituzioni (ovvero quelle che dovrebbero fungere da case di distribuzione della cultura) ma il mercato, e questo molto prima che il coronavirus c’inducesse allo stato di guerra, almeno dai tempi del connubio Picasso e Kahnweiler, il mercante d’avanguardia. Significa che può aspirare a diventare cultura e a fare la Storia soltanto l’arte che si vende o si compra, quella quotata. Tutto il resto, la cultura non veicolata dal mercato – ovvero quella che le istituzioni non sono obbligate a rendere redditizia poiché si fingono alternative alla cultura di mercato – risulta ineffettiva o non pervenuta.
Mentre sul mercato, quindi, l’arte è determinata, ed è quella cioè, seppur discutibile, di determinati artisti più o meno quotati, l’arte invece dei musei, teatri e altre istituzioni è e resta anonima e quindi nulla sul piano storico, e questo da più di mezzo secolo. Perché? Perché i musei pubblici o privati non fanno più endorsement per determinati artisti, non adottano il pensiero di questo o quell’artista, non seguono una visione. Una politica deliberata della sospensione (figlia di una geopolitica indefinita dai tempi della Guerra Fredda) che già ci costava caro e che i responsabili chiedono adesso, con il pretesto del lockdown, di protrarre.
È l’idea del Fondo per la Cultura che si è fatta strada la scorsa settimana, abbracciata da qualche parlamentare della Commissione Cultura e diventata una petizione lanciata da Federculture, firmata tra gli altri da direttori e presidenti di istituzioni nazionali come il Maxxi, Triennale di Milano, Quadriennale di Roma e altre (quasi tutte capeggiate dal PD). Chiedono ai cittadini, con ora la benedizione del Ministro Franceschini, di investire a fondo perduto su una cultura senza nomi e senza una direzione.
Tipico di una politica di mezzo che potrebbe però avere vita breve: con la gestione sanitaria del coronavirus nel mondo, una nuova geopolitica si sta disegnando. Ma durerà finché converrà all’equilibrio mondiale un’Europa frammentata dalle molteplici (cioè variabili e quindi arbitrarie) identità, stretta tra grandi potenze tra Est ed Ovest dall’identità invece fissa e definita.
Ancor prima che nascesse questa idea del Fondo per la Cultura, all’ordine di chiusura generale, le istituzioni culturali disorientate avevano cominciato per improvvisare iniziative online con qualche diretta disordinata per poi mobilitarsi sui social dietro hashtag vagamente autoritari come #iorestoacasa, #laculturaincasa e #laculturanonsiferma in cui le istituzioni c’intrattengono diffondendo immagini di adetti ai lavori trasformati in predicatori dell’era paleocristiana fra le mura domestiche. Vogue l’ha già chiamata “la primavera dell’arte contemporanea”, ma per ora non è altro che ordinaria didattica. Dal canto suo, Flashart risponde entusiasta al nuovo standard chiedendo agli artisti in quarantena di mandare video da casa loro (come lettere dal carcere, una vecchia tradizione letteraria) ma molti avevano già cominciato a farlo spontaneamente su Instagram. Per quanto riguarda la musica e gli spettacoli, qualcuno crede che i concerti con orchestra diretta in conference call e musicisti in pigiama siano il futuro delle prestazioni artistiche. L’isolamento è forse un motivo per rinunciare a quel che resta di livello istituzionale nella cultura? O ci dobbiamo accontentare di un live di Bocelli che canta da solo in una Piazza Duomo deserta, nemmeno fosse l’ultimo uomo rimasto sulla Terra? Il tono lo ha dato il Papa inscenando la messa Pasquale in una Cappella Sistina privatizzata, senza fedeli.
Se tutti aderiscono a questa corale dichiarazione d’impotenza come fosse la naturale continuazione dei nostri ideali occidentali, perché non porre la domanda: i musei, i teatri e le altre istituzioni culturali sono, vista la situazione, in grado di adempiere alla loro missione culturale? Questa era già cambiata giacché le istituzioni non erano più i templi della ricerca. Ma per contratto non solo dovrebbero conservare e diffondere la nostra cultura, bensì anche rilevare e promuovere la ricerca più avanzata. Ora che musei e teatri si sono smaterializzati e traslocati sui social (se in questa nuova veste sapranno o no fare benefici si vedrà), oltre alle attività didattiche aspettiamo di vedere il corrispettivo virtuale – ma che sempre reale deve restare – delle attività scientifiche. Non possiamo lasciare che si riassumino al semplice racconto delle mostre e delle collezioni, né a qualche seppur molto istruttiva diretta streaming di curatori, direttori o artisti in programma. O per lo meno se proprio devono divulgare, spiegassero come la loro visione artistica possa essere la soluzione alla crisi attuale e quelle a venire.
Fra i proclami più spocchiosi che precedono l’ora del giudizio regalato dal coronavirus, torna in mente il progetto del nuovo Museo Macro a Roma che dovrebbe inaugurarsi in autunno, con un’idea del tutto simile alla norma vittimistica e virtuale dei musei forzati alla chiusura: l’intera collezione (un capitale, che dovrebbe cioè fruttare) del museo Macro sarebbe dovuta rimanere nei depositi per essere messa in mostra solo in fotografie come cornice delle arbitrarie (poiché non dichiarate) acquisizioni del nuovo direttore. Con o senza l’auto-isolamento quindi, la tendenza era già al surrogato culturale. Non ci lamentiamo poi se anche la cultura dipenda dai capricci del mercato con i suoi alti e bassi random.
Un altro esempio, la Germania, con l’annuncio di un applauditissimo aiuto di 500 milioni di euro a tutti gli operatori culturali previa richiesta online. Tutti in Italia ad invidiare il sistema tedesco che in realtà non fa altro che ridurre la creatività ad un lavoro generico e che non è affatto atto a promuovere la scienza artistica. Alla base dell’arte ci deve essere una scelta politica; scrittori, musicisti, pittori precisi di cui i politici devono cioè fare i nomi, e con cui devono giustificare la loro politica, artisti dei quali coltivare e organizzare il pensiero a livello sociale. Purtroppo o per fortuna, in Germania quanto in Italia, e ovunque la politica eviterà accuratamente di scegliere gli artisti e gli scienziati la cui ricerca dovrebbe essere alla base dei programmi politici e dei nostri governi, la conoscenza, l’arte, è e resterà clandestina. Alla stregua cioè delle attività criminali.
Ma il mondo reietto della ricerca ha avuto una piccola rivincita con la visita a sorpresa qualche giorno fa del Presidente Macron a Marsiglia, dopo un’accorata mobilitazione di personalità e medici illustri dietro al mitico Professor Raoult. Esperto in malattie infettive e ricercatore, Raoult incarna con la sua clinica, l’IHU, l’efficacia del trattamento a più basso costo che per ora esista per curare i pazienti affetti da coronavirus. Un protocollo che abbina due molecole Clorochina e Azitromicina al quale il governo francese preferisce un costosissimo trattamento preconizzato addirittura per decreto e rivelatosi inefficace dai test. L’errore (o la truffa) del governo Macron rappresenta un vero fallimento economico, ma anche culturale se consideriamo che il protocollo per ora più efficace, quello del professor Raoult, è anche quello della Cina.
Con il tour scientifico last minute di Macron, si è visto il potere improvvisare troppo tardi, nel momento dell’urgenza e in barba alla quarantena, consultazioni (pur se di facciata) con esperti di vari centri di ricerca francesi. È esattamente quello che il potere senza una direzione culturale – quindi scientifica – crede di avere il privilegio di fare: poter optare estemporaneamente e in balia degli interessi del momento per la strada più vantaggiosa. Un’illusione catastrofica.
Artisti della stoffa e dall’esperienza del Dr Raoult o se preferiamo di un Fermi o di un Einstein, ci sono, anche e soprattutto in Italia, ma la guerra è arrivata senza un progetto Manhattan: non un politico e di fatto non un museo ha preventivamente voluto reclutare quegli artisti che hanno già inventato il vaccino (la cultura) anti-isolamento e aspettano solo di poter produrre. Ma quale democrazia già arresa e in quarantena sarebbe pronta a schierarsi contro i paesi esportatori di mascherine, respiratori e altri rimedi intermediari?
Raja El Fani
—————————————