Buona e mala politicaParticelle “elementari” (non della fisica, ma del dibattito pubblico su Covid-19)

 

Io, tu, noi voi, loro.

I pronomi personali sono la dorsale identitaria di ogni persona, di ogni famiglia, di ogni azienda, di ogni società, di ogni comunità nazionale. La primissima maturità della vita avviene quando si esce dalla totalizzazione dell’io e si scopre – felicità e conflitto – che esiste tutto il resto. Su quella felicità si costruiscono infiniti saperi e infinite funzioni. Su quel conflitto è razionalizzata tutta l’architettura delle regole che servono a far convivere dialettiche degli interessi, delle rappresentazioni, dei poteri. Il dibattito sulla pandemia potrebbe essere letto quasi tutto nel tornare a pesare le relazioni tra questi pronomi personali. Ciascuna disciplina lo fa con strumenti e obiettivi diversi. Psicologi, sociologi, economisti, filosofi, comunicatori, per non parlare di operatori sanitari, operatori della sicurezza, operatori dell’assistenza, e – perché no? – politici e amministratori, stanno valutando, attimo per attimo, la diversa percezione tra le dinamiche individuali e quelle collettive e quindi alla fine la rivalutazione del “noi” nei processi della percezione di uguaglianza di destino e la rivalutazione del “loro” nei processi di solidarietà e oblatività in cui il nodo non è solo percettivo ma anche composto di atti concreti. Questa annotazione non ha scopi retorici, ma di ricollocazione di un dibattito che, appunto, aveva risvolti retorici e che – forse – recupera ora valori etico-sociali.

 

Patria, patrie, mondo.

E’ appena alle nostre spalle la discussione pubblica – per esempio in occasione delle elezioni europee dello scorso anno – sul ritorno di scontro attorno all’idea del “primato nazionale”, che ha messo al sicuro il successo politico e la narrativa pubblica delle tre maggiori potenze mondiali (America, Russia e Cina) e che ha tentato quindi alcune forze politiche della vecchia Europa di rimettere indietro le lancette della storia. Quando attorno all’idea del primato nazionale nella vecchia Europa si sono scatenate due sanguinose guerre mondiali da cui, grazie a uomini di livello superiore, è uscito il “vaccino” teorico e applicativo dell’Unione Europea. Come si ridefiniscono i confini astratti – quelli magari confusi ma al tempo stesso radicati che stanno nella testa e nel cuore di noi tutti – di un’idea di patria che il virus non conosce infilzandola non per un disegno scientifico premeditato ma percorrendo i canali relazionali che l’umanità ha costruito nel fabbricare ponti (culturali, commerciali, turistici) tra un paese e un altro, quindi generando il meglio dell’economia moderna? Maurizio Viroli ci ha aiutato di recente con il suo piccolo libro “Nazionalisti e patrioti” a ridefinire gli ideali del “vivere libero e civile” in cui si può riparlare di patria senza cascare nel nazionalismo. Ma il dibattito che accompagna la crisi pandemica – che ha portato in auge per necessità le idee di chiusura, di difesa, di protezione, di separazione – mette radici in questa area di importanti particelle definitorie, sperando che si facciano passi avanti e non passi indietro.

 

L’età, particella identitaria

Giovani e anziani costituiscono i poli opposti del rodeo innescato da Coronavirus. I primi “risparmiati” e i secondi “perseguitati”. Pur con qualche controindicazione – che si capirà statisticamente solo alla fine – gli anticorpi hanno finora dimostrato che l’anagrafe fa la differenza nel far barriera all’ondata epidemica. La fa con i giovani ma abbassa le difese da una certa età in su diventando letale quando questa patologia si aggiunge ad altre pre-esistenti. Fin qui il problema è di natura scientifica. Diventa problema sociale e culturale quando, nelle narrative (popolari e burocratiche) assume valenza discriminatoria, ovvero entra in sommarie categorie che possono mandare all’aria diritti costituzionali, sostanziali differenze individuali oggettive, tradizioni di rispetto che hanno caratterizzato vasti ambiti di civiltà. Il dibattito pubblico su Covid-19 segna qui un capitolo che nutrirà non poche analisi di varie discipline. E sull’esito culturale e civile di questo dibattito pesano ora incognite. Mentre stenta a farsi avanti la riprogettazione di un ruolo attivo degli anziani nella società contemporanea che era ormai maturo per accogliere l’allungamento oggettivo della vita armonizzato con il fatto che esso deve accompagnarsi non con meno lavoro ma con più lavoro compatibile con le condizioni oggettive della “terza età”. E in pari tempo il “black out” occupazionale in corso è un nuovo macigno che pesa sull’idea parallela che i giovani dovrebbero oggi entrare nella vita lavorativa (dando quindi il “loro contributo”) più presto e non più tardi della tendenza invalsa. Dunque giovani e anziani hanno il comune problema di uscire presto dalla nube dell’epidemia rimettendo in ordine due questioni offuscate.

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