Strani giorniLegge contro l’omo-transfobia: giù le mani dall’identità di genere

No, l'inserimento dell'identità di genere all'interno del provvedimento in discussione non va contro le donne. Anzi, aiuta a proteggerle. E a proteggerle tutte. È forse questo che dà fastidio?

Lo schema è quello. In parlamento si discute di un provvedimento che riguarda le vite delle persone Lgbt+ e subito c’è la solita levata di scudi. Ai tempi delle unioni civili, ad essere “minacciato” era l’istituto matrimoniale per le persone eterosessuali. Quindi, quando l’attenzione si concentrò sul capitolo delle stepchild adoption. Ci furono appelli e lettere ad orologeria paventarono l’apertura alla gestazione per altri, con la conseguenza di confondere due cose che marginalmente si toccano. Adottare la prole del partner non significa automaticamente avere figli con Gpa, significa adottare un bambino a prescindere da come è venuto al mondo. Ciò creò quel clima culturale che portò alla cancellazione del capitolo adozioni dal testo di legge. Lo schema si sta riproponendo, uguale ad allora.

In una lettera ai parlamentari firmata da Se non ora quando – Libere (da qui in poi Snoq Libere), possiamo leggere frasi quali: «Riteniamo necessario informarvi sui motivi della nostra forte preoccupazione per una proposta legislativa contro l’omotransfobia che estende i crimini d’odio anche alla cosiddetta “identità di genere”». Le firmatarie, infatti, dichiarano la loro preoccupazione per un clima di intolleranza, «risultato di specifici, concreti e diffusi episodi, avvenuti all’estero e in Italia nei quali si rivela la carica di intolleranza e discriminazione contenuta nella formula della “identità di genere” nei confronti delle donne».

Si portano, tra gli altri, i casi degli attacchi a J.K. Rowling – più volte accusata di essere una TERF – per alcune sue affermazioni ritenute offensive proprio dalla comunità transgender. E si cita anche la richiesta, da parte di alcune realtà Lgbt+, di espellere Arcilesbica dal circuito Arci per alcune recenti posizioni ufficiali ritenute «transfobiche e trans-escludenti».

Per Snoq Libere c’è un rischio. Affermare che le donne sono solo quelle nate con corredo cromosomico e organi riproduttivi femminili può portare a persecuzione. Timore che insegue quello dei cattolici fondamentalisti di non poter più affermare che la famiglia è solo quella formata da uomo e donna. E che il legame eterosessuale è l’unico moralmente accettabile. Emerge, ancora, un’altra preoccupazione. «Se a livello istituzionale» leggiamo ancora «si sostituisce la nozione di sesso con quella di identità di genere, i diritti delle donne ne riceveranno un danno. A livello politico ad esempio, laddove esistono quote o incarichi destinati alle donne, questi potranno essere occupati da persone con identità di genere femminile». Basterebbe, tradotto in termini più semplici, dichiarare di sentirsi donne per occupare i posti riservati a queste ultime nelle quote di genere.

Le posizioni Snoq Libere possono essere criticate su diversi piani. In primo luogo, la questione dell’identità di genere non si basa su una semplice dichiarazione. La definizione dell’identità di chi non si colloca dentro il binarismo di genere (opposizione maschio-femmina) e che non segue l’essenzialismo biologico (che recita: sei femmina solo se nasci con la vagina) non è un percorso semplice, lineare e scevro da criticità.

Chi comincia questo percorso non compie una semplice e acritica sostituzione di pronomi, articoli e aggettivi di fronte al proprio nome. La questione investe, appunto, l’identità a più ampio spettro e non la percezione di sé con lo scopo di togliere spazio alle “donne biologiche” in un consiglio di amministrazione o di in una lista elettorale. Porre la questione in questi termini genera molte perplessità. Non si capisce, in soldoni, se chi crede a certe affermazioni lo fa o per ignoranza della questione dell’identità di genere o per malafede. E qui, sospendiamo il giudizio.

Aiuterà ascoltare le parole dell’attivista non binario Ethan Bonali, che già altrove si è espresso in merito. Ho chiesto ad Ethan di tornare su quegli argomenti, per spiegare come mai certe affermazioni vanno rimandate alle mittenti. Alla base di quelle posizioni c’è «il concetto, caro al femminismo radicale anni ’70, secondo il quale l’esperienza di oppressione delle donne è dovuta dalla propria anatomia e quindi esclude le donne trans a priori in quanto esse hanno beneficiato dei privilegi maschili».

Pensiero che però è falsato da un grosso limite: la piena ignoranza delle varianti di genere. Quel pensiero tiene conto solo di una mascolinità egemone a cui si contrappone l’idea di una femminilità, altrettanto egemone. Si ripercorre un binarismo, dunque, che esclude tutte quelle identità che non si riconoscono in esso. Non solo: parlando dell’autrice di Harry Potter, Bonali fa notare ancora: «La scrittrice» insistendo sull’esistenzialismo biologico, «sta creando una scala di valori di corpi ed esistenze. Sta creando dei confini».

Questi, ancora, vengono usati come arma politica: «Rowling, in effetti, non arriva mai al punto riguardante i diritti delle donne, ma usa i diritti delle donne per colpire i diritti di altre persone». L’attacco al concetto di identità di genere, in altre parole, diventa uno strumento per colpire la comunità transgender e quella delle persone non binarie. «È una versione di quel “femonazionalismo” individuato da Sara R. Farris nel suo libro Feonazionalismo: il razzismo nel nome delle donne. Non contenta la Rowling richiama all’essenzialismo di genere anche tutte quelle realtà Lgbt che si sentono minacciate da corpi e sessualità “non conformi”. La scrittrice crea un nemico e tenta di spaccare un movimento per isolare una minoranza».

Anche la scrittrice Giulia Blasi ha affrontato la questione, nella prospettiva del pensiero femminista. «Sono mesi che cerco di capire il punto di vista delle TERF. Non perché lo condivida» scrive sul suo profilo Facebook «ma perché non puoi combattere quello che non capisci». Blasi non ha la pretesa di dire verità assolute o di essere esaustiva, ma propone il suo punto di vista: «Se concepisci il mondo come una struttura piramidale in cui c’è spazio per un numero limitato di individui, (quindi: enne uomini, enne donne), la donna cis pensa di dover spartire il suo già risicatissimo spazio con le donne e le persone trans e non binarie, e si sente ancora più riserva indiana». Per i meno avvezzi: per donna cis si intende la donna nata con la vagina (cis- è in opposizione a trans-).

Dunque: «Quello che le TERF non riescono a capire che il problema è il sistema piramidale» nello specifico, il patriarcato capitalista, «che assegna caselle a seconda del genere, prediligendo quello maschile: un sistema che va smantellato del tutto, per costruire una società reticolare, basata su una leadership diffusa, che non si limiti a spartire il potere, ma provi a creare e moltiplicare gli spazi di presenza». E quindi: «Per farla breve: le TERF non vogliono smontare il patriarcato, ci vogliono solo vivere più comode dentro».

Un terzo piano di criticità, investe proprio la questione giuridica. È vero, insomma, che se la legge passasse manderebbe in galera chi sostiene che le uniche donne sono quelle “biologiche”? No. È una lettura sbagliata. Ce lo spiega Angelo Schillaci, giurista, che sempre su Facebook ricorda: «Il testo unificato – contemplando, accanto all’orientamento sessuale e all’identità di genere, anche il genere – allarga significativamente il campo di azione della legge, che diventa (anche) una legge contro la misoginia, per quel che riguarda la parte penale. E questo andrebbe adeguatamente considerato nel dibattito». A ben vedere, è ciò che ha già detto Bonali più su: certe polemiche non arrivano mai al punto riguardante i diritti delle donne.

«Quanto specificamente all’identità di genere» continua Schillaci, «si tratta di un concetto che ha un “peso giuridico” ormai ben definito, sia nella giurisprudenza europea che in quella interna: la Corte costituzionale, nella sentenza n. 221/2015, definisce espressamente l’identità di genere quale “diritto fondamentale”. Questo rende preferibile, ad esempio, l’uso di “identità di genere” rispetto a concetti giuridicamente assai più opinabili, quale quello di “transfobia”» come invece chiedono le attiviste di Snoq Libere.

E prosegue: «La specifica funzione delle norme degli articoli 604-bis e ter – che non sono (soltanto) norme antidiscriminatorie ma, appunto, norme di contrasto della violenza e dell’odio – impone di utilizzare termini adeguati per nominare le ragioni (o le radici) di quello specifico tipo di violenza. E, ad esempio, la Convenzione di Istanbul colpisce la violenza sulle donne “in quanto violenza basata sul genere”».

Il giurista compie il suo ragionamento non in risposta diretta a Snoq Libere, ma su un piano più generale. Mettendoci in guardia da un rischio. «Vedo all’opera nel dibattito in corso una delle tentazioni più pericolose di questo tempo, e cioè la costruzione polemica delle identità e l’uso (strumentale) della differenza come barriera (e prigione) piuttosto che come ponte». E ritorniamo ancora a Bonali: si usano i diritti delle donne per colpire i diritti di altre persone. Tornando a Schillaci: «Questo si allontana molto, secondo me, dal senso più profondo della declinazione costituzionale dell’eguaglianza quale pari dignità sociale, nel legame indissolubile tra gli articoli 2 e 3. Il riconoscimento (del genere e) dell’identità di genere come ragione non ammessa di discriminazione o violenza, dunque, non solo è coerente con il quadro costituzionale e con quello europeo, ma non toglie nulla – dal punto di vista giuridico – alle sacrosante istanze delle donne».

Ricapitolando: non sembrano esserci ragioni per cui il riconoscimento dell’identità di genere all’interno della legge contro l’omo-transfobia possa essere un boomerang. Per la libertà d’espressione (in generale) e per la questione di genere (nello specifico). Chi si oppone all’inserimento di tale dicitura dovrebbe spiegarci, dunque, quali sono le reali motivazioni che agitano timori e resistenze. Perché, come già detto in apertura, il rischio sembra quello di avvelenare il dibattito. Allontanandolo da questioni concrete e orientandolo verso timori infondati, con l’obiettivo (non esplicito) di confondere ancora di più le acque.

Ci si è già riusciti, per altro, con l’eliminazione del capitolo stepchild adoption dalla legge Cirinnà. Si vuole forse seguire lo stesso disegno, a discapito delle persone transgender e non binarie? Lo si dica chiaramente. Ad un finto alleato, che rema contro, è sempre preferibile un avversario che si qualifica per quello che è. Rimarranno le distanze e ci si scontrerà su molte questioni. Ma si riconoscerà all’altro il merito, quanto meno, della trasparenza e dell’onestà intellettuale.

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