#TsurezuregusaQuanto vale dire “Made in Italy” in Giappone: new consumers e best practices trends

di Stefania Viti e Orietta Pelizzari.

In questo periodo in cui l’Italia è chiamata a una ripartenza e a trovare un nuovo posizionamento nel mercato, con Orietta Pelizzari – esperta di mercati internazionali – abbiamo riflettuto sulle tendenze dei nuovi consumatori giapponesi e su quali possano essere le best practices che le nostre aziende medie e piccole possono mettere in atto per diventare trendsetter in questo mercato. 

Pensare all’Asia come al continente del futuro rischia paradossalmente di relegarci nel passato, dato che ormai è il continente del presente. È bene ricordarlo, specialmente in un momento come questo in cui tutto è in trasformazione e l’ Italia è chiamata a una ripartenza, a trovare un nuovo posizionamento nel mercato globale. Per questo motivo ci siamo chieste quale sia l’immagine del Made in Italy in Giappone, terza economia mondiale dopo Usa e Cina, uno dei principali mercati asiatici e uno dei nostri più importanti partner commerciali: l’export italiano verso il Giappone nel 2019 valeva circa 10 miliardi di euro (fonte dogane giapponesi). A febbraio 2019 è stato firmato, inoltre, l’accordo di partenariato economico col Giappone (EPA UE-Giappone) che ha aperto nuove opportunità per le nostre aziende agevolando lo scambio di cui alcuni nostri prodotti (vedi box). Le opportunità esistono, ma vanno conosciute e sapute cogliere. Ci siamo dunque chieste quanto vale dire oggi “Made in Italy” in Giappone e quali possano essere le best practices che le nostre PMI possono attuare per essere innovative e diventare trendesetter del mercato.

Una fotografia del “Made in Italy” in Giappone: Il Giappone, si sa, è un paese che ci ama molto. I giapponesi studiano la nostra lingua, gustano i nostri prodotti, si vestono con i nostri capi. Ci sono molto affezionati e per molti di loro il Made in Italy è un punto di riferimento. Si tratta di una immagine solida e consolidata che trasmette l’idea di qualcosa di classico, dal prezzo piuttosto elevato. Caratteristica, quest’ultima, che vale anche per i prodotti francesi, i quali però godono di un allineamento prezzo-target forse più preciso del nostro, perché in Giappone è il Made in France ad essere sinonimo di “luxury & coolness”. Dall’altro lato il nostro Made in Italy è un brand che sa parlare bene a quella fetta di clientela affezionata che già ci conosce e che per questo ci ama, pregi e difetti compresi. Abbiamo invece più difficoltà a raggiungere gli strati più giovani della popolazione giapponese, quelli che sono generalmente meno “brand-oriented”, ovvero che hanno meno propensione al marchio rispetto alle generazioni precedenti. D’altra parte i tempi sono cambiati e oggi più che nel nome il valore sta nel messaggio che attraverso il brand il marchio riesce a mandare e che deve essere in linea coi tempi, ne sono un esempio alcune parole chiave come eco, bio, sostenibile, unico, riutilizzabile. Se questi sono valori che già appartengono alle nostre aziende, il linguaggio che viene utilizzato per comunicarli non sembra essere sempre efficace. La comunicazione rimane infatti uno dei nostri punti deboli: possiamo migliorare la nostra presenza social, e valorizzare di più ciò che già abbiamo migliorando l’autenticità dello storytelling. Parallelamente potremmo fare meglio anche nella distribuzione del prodotto e nel cutting-age design.

Made in Italy, cutting-age vs conservative: l’impressione generale è che negli ultimi anni molti marchi italiani, medi e piccoli, abbiano preferito puntare su quel consumer giapponese “senior” e dall’indole “conservative”, che predilige prodotti dallo stile tradizionale. In questo atteggiamento conservatore siamo stati supportati da una certa categoria di buyers giapponesi poco propensa al rischio, che ha preferito continuare a comprare le stesse cose per “non sbagliare”, ovvero non “perdere” i clienti affezionati, preoccupandosi poco di intercettare le nuove esigenze del mercato. Se da un lato noi abbiamo assecondato questa scelta, nel lungo termine essa si è rivelata piuttosto rischiosa, dato che ha finito col cristallizzare la nostra immagine, posizionandola nella fascia del “classico” che però ha stabilito un gap sempre più ampio con i gusti delle nuove generazioni giapponesi. Dal punto di vista commerciale, il Sol Levante si trova in un momento di transizione che si esprime nella crisi di alcune tipologie classiche di canali commerciali come quelle dei department stores, le cui vendite sono in declino da anni. Nel 2016 il crollo del fatturato fece segnare il peggior dato da 36 anni, valutato un -40% rispetto all’anno d’oro, che fu il 1991.

Il Giappone, uno scenario retail dalla doppia faccia – Crisi del sistema o crisi di merchandising? Probabilmente entrambe le cose. L’evoluzione dei gusti dei giapponesi si esprime nel cambiamento dei linguaggi utilizzati, degli stili e di conseguenza anche dei luoghi del commercio. È ormai consolidata quella fetta di mercato che preferisce fare shopping nei piccoli negozietti di Nakameguro, zona artistica e creativa della capitale, piuttosto che nei grandi Dept. Stores di Shinjuku, Shibuya o Harajuku, ormai non molti diversi da quelli di Ginza. Le giovani generazioni vanno alla ricerca di select shop locali dove sono certi di trovare marchi poco conosciuti, prodotti dal design originale, poco diffusi, spesso presentati attraverso eventi pop-up: in poche parole, le novità. Il consumatore giovane giapponese è meno incline a subire il fascino del nome brandizzato ed è per questo motivo che i negozi new-locals sono gli hub dove questa clientela va a cercare la novità ma dove i nostri prodotti faticano di più ad arrivare.

Made in Italy, una idea di best-practices: Le nostre piccole e medie imprese, capaci di produrre straordinari prodotti artigianali che durano nel tempo, hanno tutte le caratteristiche per poter emergere come trendsetter, ampliare la loro sfera di influenza e dunque la loro fetta di mercato. Impariamo però a comunicarlo meglio, con un linguaggio adatto al tempo in cui viviamo. Diciamo di più che piccolo è bello e che piccolo è anche meglio. Valorizziamo il racconto del dettaglio, perché fare questo ci porta ad avere unicità dello storytelling: personalizzare il prodotto significa realizzare l’emozione del cliente; ricordiamoci poi che artigianale e digitale stanno bene insieme, che inaspettato e stupefacente sono i linguaggi contemporanei. Piccolo, inoltre, è sinonimo di sostenibile, così come lo è la filiera tracciabile e trasparente dei nostri prodotti sartoriali. Diciamo tutto questo un linguaggio semplice, essenziale ed efficace: creare una strategia di comunicazione che parli ai tempi e col linguaggio del nostro tempo non è più una scelta, ma è un dovere. Il primo se vogliamo essere leader di questo mercato.

 

Box: i dati del Made in Italy in Giappone

“Tessile, abbigliamento, pelletteria, accessori moda hanno per noi un’assoluta portata strategica. Stiamo parlando della voce più rilevante del nostro export in Giappone: 24,5% del totale per l’ammontare, in valore, di 2,5 miliardi di Euro sui 10,5 miliardi di esportazioni registrati complessivamente dal febbraio 2019 al gennaio 2020, secondo i dati delle dogane giapponesi: primo anno di attuazione dell’EPA UE-Giappone. Nel comparto tessile-moda siamo il Paese UE che esporta di più e la Francia, seconda dopo di noi, esporta meno di un terzo rispetto all’Italia”. “Nel primo anno di attuazione dell’EPA UE-Giappone abbiamo assistito a un incremento significativo, pari al 9,5%, del valore del nostro export in questo macro-settore” – spiega l’Ambasciatore d’Italia a Tokyo, Giorgio Starace, durante una iniziativa pubblica. “L’EPA prevede infatti le maggiori liberalizzazioni tariffarie proprio nel settore fashion, oltre all’agroalimentare. Al tempo stesso, nonostante i benefici dell’EPA, il settore fashion è quello dove intravediamo un potenziale maggiore. Nei primi 12 mesi di attuazione dell’accordo, il 25,2 percento del valore delle spedizioni di prodotti tessili, di abbigliamento e degli altri accessori moda è entrato in Giappone attraverso le liberalizzazioni EPA: possiamo e dobbiamo quindi fare di più considerato che per ciò che concerne il totale del nostro export abbiamo utilizzato l’Accordo per il 49.4% delle nostre spedizioni. Siamo consapevoli che nel settore moda il rispetto delle previste regole d’origine è complicato ma sono convinto che vi siano margini per migliorare ulteriormente.”.

“La Camera di Commercio Italiana in Giappone (ICCJ) ha deciso di concentrarsi sul risvolto positivo di questa crisi, che se da un lato ha rallentato gli scambi commerciali nell’immediato, dall’altro apporterà una forte accelerazione al processo di rinnovo delle modalità di dialogo tra i due Paesi che potranno essere più dirette grazie al maggiori utilizzo del digitale. Si tratta di un sistema che può parlare meglio alle dalle fasce di giovani di consumatori, e più adatte a presentare nuovi aspetti della nostra Italia: insieme all’idea della “Dolce Vita” possiamo mostrare l’aspetto dell’Italia efficiente, tecnicamente preparata e di stampo contemporaneo. Per questo motivo ICCJ ha creato una comunità online rivolta ai giapponesi: Italia, amore mio! nello stile degli Online Salon nipponici: contenuti linguistici e culturali, lifestyle e molta interazione attraverso contributi video e live che serviranno a presentare i nuovi brand. Tra i brand ICCJ, il concorso per la promozione dell’olio extra vergine di oliva di qualità, il Japan Olive Oil Prize, proprio nell’anno di emergenza globale ha conosciuto una crescita importante passando dai 250 partecipanti del 2019 ai 350 da 15 paesi del 2020.  Abbiamo inoltre creato un nuovo premio, il Joop Design Award che vede la partecipazione di nomi prestigiosi nomi del design, tra cui quello di Kengo Kuma”

Stefania Viti, giornalista e nipponista. Ha vissuto a lungo in Giappone, scrive di Giappone contemporaneo.

Orietta Pelizzari, è esperta in mercati internazionali, lavora come fashion advisor ed è consulente per le maggiori istituzioni italiane del Made in Italy come Camera Nazionale della Moda e Lineapelle.

 

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