Moltissime le novità in libreria. Almeno coi libri, il Giappone è dietro l’angolo.
C’è molto fermento intorno alla letteratura giapponese, almeno stando al numero delle uscite in libreria. Merito delle case editrici, grandi e piccole, che sempre più spesso guardano a est. E a un numero sempre più nutrito di ottimi traduttori che possono offrirci edizioni italiane direttamente dal giapponese. Nonostante le frontiere chiuse il Giappone è dunque oggi un paese più facile da raggiungere, per lo meno attraverso le pagine dei libri.
È un racconto da brividi, adatto a raffreddare gli animi delle afose serate estive Il demone dai capelli bianchi (Elliot, 2020), storia fantastica di Edogawa Ranpo – uno dei più grandi narratori giapponesi di noir della prima metà del novecento – appena uscito in libreria a cura di Diego Cucinelli. Il romanzo narra la storia di Ōmuta Toshikiyo, uomo ricchissimo ma sfortunato che, tornato in vita dopo la morte, è ferito nei sentimenti più profondi, quelli dell’amore e dell’amicizia, e per questo cerca vendetta a modo suo, tutto giapponese. La trama non è una storia originale ma è la terza versione di un romanzo di Marie Corelli uscito in Inghilterra nel 1886, ripresa poi da Kuroiwa Ruikō, il padre del giallo giapponese amatissimo da Edogawa Ranpo, e riscritta e modificata da quest’ultimo che la ambienta nel Giappone degli anni Trenta, quelli nei quali vive. La cornice è quella letteratura di fantasmi tipica della cultura del Sol Levante, caratterizzata da note grottesche e feticiste dove l’eros non è bandito ma anzi gioca un ruolo importante nello sviluppo del racconto. Ricco di colpi di scena che lasciano spiazzati e stupefatti Il demone dai capelli bianchi è anche un viaggio in un Giappone perduto. Un Giappone a modo suo, fantastico anch’esso.
Si rifà sempre al genere del giallo mescolato però a note di magia uno dei romanzi più divertenti usciti di recente, Red Girls di Sakuraba Kazuki (traduzione di Anna Specchio – Edizioni e/o 2019) premiato in Giappone col il Mistery Writer of Japan Awards. Il racconto narra la storia di tre donne dell’illustre famiglia Akakuchiba: la capostipite Man’yō, la figlia Kemari e la nipote Tōko. Questa saga familiare tutta al femminile è in verità il pretesto per raccontare tre tipi di Giappone molto diversi tra di loro: quello della ripresa economica del dopoguerra, quello underground dei gruppi bōsozoku – i motociclisti – degli anni novanta, e quello della società precaria di oggi. A fare da collante alle storie di queste tre donne ci sono il mistero dell’ “uomo volante” che come un filo rosso “insegue” le tre protagoniste e il potere sovrannaturale della chiaroveggenza, caratteristica che contraddistingue Man’yō, e che influenzerà anche la vita di sua figlia e della nipote. Se queste tre donne sono gli attori attraverso i quali la scrittrice racconta la storia del Giappone, Red Girls è però un romanzo in cui il vero protagonista è il tempo, quello di un paese che cambia e che si modifica, e nel quale le trasformazioni che stanno tutto intorno ai personaggi influenzano direttamente la loro avventura in questa vita. Molto interessante anche la scelta dello stile della scrittura che cambia capitolo dopo capitolo, influenzata e adattata al tempo della storia.
È invece un racconto tutto calato nel presente quello de Il paese dei suicidi di Yū Miri – tradotto e curato da Laura Solimando, uscito nella collana di letteratura dell’est, Asiasphere, collana è diretta da Gianluca Coci per Atmosphere libri, 2020 – che affronta il delicato tema del suicidio, una piaga sociale di cui il Giappone ha avuto per lungo tempo il primato mondiale. L’autrice, Yū Miri, giapponese di origine coreana, vincitrice di numerosi premi letterari, è diventata famosa nel Sol Levante per attingere alla sua difficile situazione – discriminata a scuola per la sua origine, ha tentato il suicidio – e per raccontare storie che hanno alla base il problema dell’identità e dell’appartenenza. La protagonista è Mone, una ragazza appena entrata alle superiori ma che avendo fallito l’esame d’ingresso a un liceo prestigioso, ripiega in una scuola di livello mediocre che non le garantirà alcun futuro. Il deserto di cui è fatta la vita della protagonista però non conosce confini: ha una famiglia in frantumi e amicizie che la ignorano fino quasi a bullizzarla. Si sente esclusa e invisibile, di certo sola. L’idea del suicidio arriva presto nella sua vita e il libro si apre con pagine scioccanti che raccontano il dialogo di un thread del dark web, una chat dove si ritrovano persone di ogni età che cercano compagni per suicidarsi. In Giappone i suicidi di gruppo sono diventati un fenomeno sociale e il tema delicato del libro serve all’autrice per affrontare un argomento a lei molto caro, quello dell’affermazione della vita. La storia è narrata con uno stile originale, frammentato, nel quale il racconto dell’azione e dei pensieri di Mone viene continuamente interrotto dalla ripresa dei suoni e delle voci che la circondano in metro o sulla strada. È il destino del suo nome che la obbliga a sentire anche quando non vuole ascoltare: “I nomi erano potenti. Il nome Mone glielo aveva dato sua nonna. Mo, il primo carattere, significava tutto. Ne significava suono”.
E sempre di anime da salvare, o da riparare che dir si voglia, parla Le storie del negozio di bambole di Tsuhara Yasumi (tradotto da Massimo Soumaré – Lindau 2020) sei racconti che attraversano vari generi fino a formare un romanzo nel quale la bambola, sotto varie forme, diventa il pretesto per far emergere storie e sentimenti. Per recuperare il passato come nel caso de La bambola rotta, oppure per raccontarci un presente non proprio facile da afferrare, come ne L’amore è amore, dove un cliente porta a riparare una bambola di silicone, una love doll o duch wife, un termine nato in Indonesia dove c’è l’usanza di dormire abbracciati a un cesto tubolare. Racconto quanto mai attuale dato che durante il lockdown, l’export di love doll verso l’Italia è aumentato di ben cinque volte (fonte Askanews). In verità, il tema delle bambole è molto importante nella cultura giapponese fin dai tempi più remoti: dai pupazzi, a cui è dedicato uno dei racconti del libro, a quelle tipiche della festa tradizionale del tre marzo, “il giorno delle bambine” detto anche “festa delle bambole”, alle le iki ningyō, le bambole della fine del periodo Tokugawa (1603 – 1868), tanto per fare alcuni esempi. Anche in questo caso, a legare i sei racconti c’è un misterioso personaggio, Shimura, il riparatore di bambole, la cui storia e i cui segreti verranno svelati solo alla fine del libro.
È invece una storia romantica, anche se al contrario, quella de La gatta, Shōzō e le due donne, del grande scrittore Jun’ichirō Tanizaki (traduzione di Gianluca Coci), Neri Pozza 2020. Un triangolo nel quale la prima e la seconda moglie del protagonista, Shōzō, si trovano a fare conti con l’affetto particolare dell’uomo per la gattina Lily, il suo unico vero amore. Il romanzo, che a tratti è anche molto ironico, è un bellissimo ritratto dell’affetto umano per gli animali che, come per le persone, può trasformarsi in una ossessione. Infatti, all’ossessione di Shōzō per la gatta, fa da contraltare quella di Shinako, la prima moglie, per l’ex-marito il quale, di animo debole, non si oppone alle manovre della famiglia che lo costringe a ripudiare Shinako e a sposare Fukuko, la cugina. La storia non è, in verità, così semplice ma l’intreccio di questo romanzo sembra utilizzato da Tanizaki come cornice per scrivere il bellissimo ritratto di un gatto, animale che ricorre spesso nella letteratura giapponese. Un amore da non dimenticare o sottovalutare, specialmente in estate quando molti animali domestici vengono abbandonati.