Diversi anni fa Sergio Zavoli è stato – ovviamente a sua insaputa – il pretesto per un’acceso confronto tra colleghi docenti. Si discusse animatamente sul “taglio” dell’inchiesta più famosa e citata, la notte della repubblica, fra le diverse teche che Raiplay propone in omaggio alla scomparsa del grande giornalista ravennate.
In quella discussione erano prevalse più le preconvinzioni politiche che le questioni storiche di merito; ma al contempo si era concordi nel riconoscere in Zavoli un giornalismo insuperabile e un modo di fare inchiesta unico.
Sergio Zavoli – mi si passi la provocazione – non amava la trincea alla ricerca del dato immediato di cronaca, il che non significa che non avesse il fiuto dei fatti, ci mancherebbe. Lui invece “processava” la notizia, la ri-pensava aggregandola con altri elementi per costruirci attorno una sorta di istruttoria completa, creando per l’appunto quel format che oggi chiamiamo inchiesta e fornendo allo spettatore l’intero dossier della sua ricerca.
Questo procedere per fatti compiuti e valori espliciti riusciva ad eliminare l’inutile e il banale, aggiungeva logicità e criterio alle notizie e le riconsegnava al dibattito attraverso programmi belli,utili e innovativi. Indimenticabile l’affermazione – in riferimento al processo alla tappa del giro d’italia – di viaggiare nel ventre della corsa quando ancora i ciclisti a mezzo respiro dalle fatiche e col sudore ancora caldo delle pedalate, raccontavano il carico di sentimenti e di agonismo della gara. Insomma, un trattato di sociologia costruito sull’evento sportivo, un colpo di genialità che è già scuola di narrazione per tanti di noi.
Leggendo in queste ore testimonianze dirette, tutti ricordano la meticolosità del lavoro, la ricerca del dettaglio per un prodotto pronto alla tele-visione. Un abisso rispetto alla mediocrità mainstream osservabile in questi tempi ma anche un bel colpo di fortuna per lo stesso Zavoli, un giornalista fortunato per essersi preso tutto il tempo per un giornalismo di qualità, completo, sistematico. A noi – scrittori e giornalisti che azzardiamo di amare il mestiere della cronaca e del dibattito – l’eredità di trasmettere nel tempo della prova che ci viene chiesto di vivere in cui molte nostre certezze si sgretolano davanti ai nostri occhi e la fretta di non “bucare la notizia” spesso si ritorce contro trasformandoci di portatori di non-notizie, di sciocchezze demenziali, di grossolane stronzate.
Se tanta tv – Rai in primis – avesse accettato con l’avvento della televisione privata e l’avvento dei nuovi media, il suo appello “distinguersi per qualità e impegno” forse oggi pubblica opinione e classe dirigente di questo paese sarebbero meno banali e anche il mondo dell’informazione dovrebbe farsi due domande sul continuare questa rincorsa alle sirene della banalità. Le responsabilità sono condivise poichè parliamo di un un coagulo di cause (crisi editoria, webpolitik, leaderismo incompetente, crisi dei valori e della democrazia etc) ma la calma e l’eleganza di Sergio Zavoli dovrebbe farci riflettere che non di solo orizzontale vive il giornalismo ma chi fa informazione deve a volte sapersi tuffare in verticale e non annaspare in superficie, deve tornare a studiare se fosse necessario e tornare a fare domande, chiedendo il perchè e il conto a beneficio di tutti.
Grazie a Zavoli abbiamo imparato a studiare il prima, saper interrogare il durante e magari offrire a tutti prospettive per il dopo.