Questo tempo pandemico si sta rivelando un faticoso esercizio del vedere, una palestra per i nostri occhi contro una sempre più dilagante regressione etico-culturale e che coinvolge molti di noi incapaci di comprendere con intelligenza il disorientamento contemporaneo. Un senso – la vista – dunque chiamato a fare il suo mestiere con le bocche cucite dalla mascherina veicolando un ritorno alla comunicazione scrutando gli occhi dell’altro, avvicinando o accigliando lo sguardo.
Speriamo in una rivincita del vedere conoscendo e del conoscere vedendo evitando di assistere anonimamente alla lotta sanguinosa tra schermi elettronici, tra bacheche impazzite e contraddittorie e emoticons sull’orlo di una crisi di nervi. Potremo farcela anche perchè, quando l’essere umano è “costretto” a mutilare per un breve o lungo periodo una parte di sé, possiede quella capacità di adattamento nel compensare ed attivare altri supporti e codici comunicativi. Citando un cult teatrale di Gigi Proietti, possiamo dire a noi gli occhi please.
Torniamo a leggere lo sguardo nostro altrui, torniamo a fissare gli occhi degli altri: come il volto di Willy e quello dei suoi pestatori, gli occhi di don Malgesini e dei suoi ultimi di Como, quello dei tanti giovani che brindano senza mascherina tutti vicini-vicini al grido trash “non ce né coviddi” e poi – risultati positivi – colmi di sensi di colpa e impauriti. Sono occhi che narrano altrettante esistenze irripetibili. Ma facciamo un passo ulteriore, proviamo a capire cosa succede ad un società coperta di bende.
Uno sguardo privo di senso è effetto di un vivere sociale – come dichiara Saviano – non motivato da un nucleo politico (e aggiungo etico) forte e sincero e non sostenuto da responsabilità nei confronti della comunità civile. Una tale cecità acceca le persone e allarga certi abissi culturali ed etici a tal punto che non esiste più una soglia tra bene e male. Tant’è che ogni evento di cronaca brutale possiede un’eccedenza di buio morale, un plus di vuoto che si pretende ineluttabile, permesso dal contesto, a tratti legittimo ma certamente impunibile. Ci si sente – nel guardare la limpida disinvoltura dei violenti – spettatori disgustati in questa gara a chi arriva in cima all’ego più forte, a chi alza l’asticella dell’impunità sorretto da una parte della classe dirigente anch’essa miope e irresponsabile alle sacche di degrado diffuse nel paese. Nella fiera del vivere a-critico, si agisce senza punti cardinali. Tutto questo è sintomo conclamato di mancanza di futuro soprattutto in un paese come il nostro, che continua a camminare sulle spalle dei padri e delle madri della storia, di una memoria di bellezza di genio che consumiamo come fosse scontata e inesauribile ma si è raschiato il barile delle scuse. Non c’è più tempo, dobbiamo togliere la mascherina negli occhi.
In questo festival delle cecità ci siamo tutti noi, confusi e infelici tentati di abbassare la vista in una spirale di inerzia e di rassegnazione. Come il figlio di un’eterna parabola evangelica, affamati di futuro ma saziati bulimicamente da un continuo presente, siamo fiaccati e stanchi dalle troppe illusioni tradite ma non abbiamo un piano b, sapendo quante diottrie potremo recuperare se solo mettessimo al centro quella che amo definire una “nuova educazione” della società, fondata sulla relazione positiva nel dialogo rispettoso tra differenze mettendo al centro la conoscenza e la competenza. Un dato è certo: la carenza di cultura è dannosa, un vuoto degli occhi e della mente, un grave ed esiziale danno molto per la polis. l’ignoranza è una maschera che copre anche gli occhi, una benda che ottunde la mente. A noi gli occhi, please!