Non è troppo lontano dal vero chi afferma che lo smart working è un privilegio da benestanti. Laddove il benessere, a prescindere dal semplice livello del reddito, che pure ha il suo peso relativo, dipende anche dal fatto che gli smart worker fanno lavori tipici in quelle che J.K. Galbraith chiamava società affluenti. Attività quindi che richiedono ingegno, istruzione di alto livello, competenze informatiche. Da cui derivano i redditi elevati. Detta semplicemente, i lavori “affluenti” sono naturalmente candidati a diventare smart, a differenza di quelli “poveri”, che richiedono e richiederanno sempre – si pensi a un barista o a un operaio – la presenza. Poi certo ci sono gli smart worker che non sono né particolarmente istruiti, né ingegnosi, ma che stanno a casa ugualmente pagati solo perché hanno un contratto e un datore di lavoro che glielo consente. Questi, più che ricchi, sono fortunati. E forse è anche meglio. Per loro.
19 Febbraio 2021