E(li's)booksGli italiani negli Usa ieri e oggi. Intervista ad Ambra Meda

Scrittori italiani in viaggio negli Stati Uniti.

Ambra Meda, autrice di Al di là del mito, il libro di cui stiamo per parlarvi in questa intervista, l’ho “incrociata” su Instagram grazie ad un gruppo di italiane che raccontano la loro vita negli USA. Le ho scritto subito perché avevo letto nella sua bio di questa pubblicazione che non ho esitato ad acquistare soprattutto per un motivo: volevo confrontare il ‘mito americano’ di ieri con il mito americano di oggi con l’aiuto di Ambra.

Il libro

Nel corso del Ventennio, fra la concezione mitica degli States mediata dai cultori della letteratura d’oltreoceano – come Pavese e Vittorini – e l’atteggiamento critico suggerito dal regime, si diffuse una visione più oggettiva degli Stati Uniti, elaborata da quegli scrittori che scelsero gli Usa come meta dei propri viaggi di conoscenza. Oltre a chiarire il ruolo del cinema e dell’emigrazione nella diffusione dell’american dream e i complessi rapporti fra la cultura fascista e quella statunitense, il volume – che si concentra in particolare sulle opere di Ciarlantini, Barzini jr, Depero, Soldati, Borgese e Cecchi – analizza le tematiche più frequenti nelle riflessioni letterarie del Ventennio sull’America: dalla traversata dell’Atlantico all’incontro straniante con le megalopoli e i grattacieli, dalla segregazione razziale al problema dell’alcolismo e del proibizionismo, dalla condizione disagiata dei nostri emigranti all’emancipazione delle american girls. Da queste testimonianze è possibile trarre non pochi spunti per una riflessione più consapevole sul rapporto fra il nostro e il Nuovo Mondo, e per chiarire oggi, nel mezzo di una nuova crisi mondiale, le radici della nostra percezione dell’America, paese ferocemente contestato, ma nel contempo visceralmente amato.

L’Intervista

Parto subito con una domanda personale: chi è Ambra Meda e cosa fa negli Usa?

Ho lasciato l’Italia dieci anni fa e ora mi trovo ad Orange County, nell’assolata California, dove l’inverno non si fa mai vedere e le rose sono sempre in fiore, ma in questi ultimi anni ho vissuto in tanti posti diversi, perlopiù in viaggio. Prima di trasferirmi in America, lavoravo all’Università di Parma, dove ho conseguito il dottorato in Italianistica e Filologia Romanza e dove insegnavo Letteratura Italiana Contemporanea. Ho concentrato la mia ricerca accademica sulla letteratura di viaggio e dell’immigrazione fra ‘800 e ‘900, e in particolare sugli scrittori italiani che durante il Ventennio vennero negli USA per mettere alla prova il mito americano.

Fra i miei lavori più interessanti, oltre al volume che hai già introdotto e agli studi sull’odeporica, credo vada segnalata la riedizione critica di Atlante Americano di G.A. Borgese, bellissimo volume di viaggio sugli States scritto negli anni Trenta del ‘900 e censurato dal Regime perché troppo filoamericano e perché il suo autore non aveva voluto firmare il giuramento fascista dei professori.

Non ho scelto questi temi a caso. Sono sempre stata assolutamente affascinata dal senso di libertà che aleggia attorno agli Stati Uniti, così come dall’idea di poter conoscere altre culture e sperimentare modi di vita alternativi. Ma il fare del viaggio il mio soggetto di ricerca è stato motivato, oltre che dalla passione, anche dall’aspirazione che i miei studi potessero diventare il veicolo che mi avrebbe permesso di viaggiare. Ed è andata proprio così.

Grazie alle mie pubblicazioni in questo settore, all’inizio del 2011, sono stata invitata a parlare a un convegno a Firenze organizzato dalla State University di New York, ed in quell’occasione il mio intervento mi ha guadagnato l’invito ad unirmi al team di italianisti del Dipartimento di Lingue Moderne della University of Central Florida ad Orlando.

Ho accettato senza esitazioni, e sono partita da sola verso un continente in cui non ero mai stata, senza un biglietto di ritorno né internet sul cellulare.

Vivere in Florida e insegnare a UCF mi piaceva moltissimo, ma pur occupandomi di viaggi sui libri, ero ancora ‘incastrata’ in un lavoro tradizionale, fisicamente ancorata ad un’aula o al mio ufficio, e di fatto non viaggiavo.

L’essermi ritrovata immersa in una cultura in cui impera la mentalità del you can be anything you want e che crede nella possibilità di rinnovarsi e reinventarsi sempre è stata la scintilla che ha acceso la miccia del mio desiderio di vivere in modo più pieno, fuori dagli schemi e libera dalle convenzioni.

Ho deciso di mettermi alla prova e ho mollato l’università. Mi sono assunta il rischio di abbandonare un mestiere attorno al quale spira un alone di prestigio e di rispettabilità, per saltare nel vuoto e seguire un percorso che nemmeno io sapevo dove mi avrebbe portata, ma che – ne ero certa – sarebbe stato colmo di avventure e di emozioni.

Insieme al mio ragazzo di allora e attuale marito (che, a proposito di mestieri anticonformisti, è anche un giocatore professionista di poker, in viaggio da quando ha diciotto anni), ho imparato a fare lead generation e affiliate marketing nel campo assicurativo, cose assolutamente lontane dalle mie competenze, ma che, svincolandomi da una location fisica e da doveri ed orari imposti da altri, mi hanno dato la libertà di vivere una vita nomade.

Abbiamo aperto una compagnia nostra, che si è allargata sempre di più fino ad occuparsi di altri settori e a farci assumere altre persone, tutte rigorosamente a distanza. E a lavorare in un ufficio non ci sono tornata più.

Insomma, negli ultimi anni ci sono stati un sacco di stravolgimenti. Ho vissuto nel Sud Est Asiatico per oltre tre anni e girato per il mondo senza avere un posto da chiamare casa. Lavorando dal mio portatile in albergo o in un AirB&B, il mio ‘ufficio’ era ovunque decidessimo di andare. Dalla critica letteraria sono finita a partecipare a conferenze di SEO, ad occuparmi di marketing nel mondo del food e a co-fondare un’accademia di poker online. E se apparentemente queste cose non hanno nulla a che vedere l’una con l’altra, in realtà sono assolutamente correlate perché favorendo uno stile di vita libero, ho avuto la possibilità di vivere in viaggio, ed ora anch’io, come gli autori che prima analizzavo da critica, ho un bagaglio di esperienze e di impressioni, sull’America e su tanti altri posti del mondo, da poter descrivere e condividere.

Della mia decisione di lasciare l’università non mi sono mai pentita, e dopo quella, tutte le altre scelte (e le rinunce) che ho fatto, sia professionali che personali, sono sempre state dettate dalla volontà di difendere quella libertà che ho fatto tanto per ottenere. E oggi mi piace poter vivere senza dovermi riconoscere in un ruolo, in una professione, in uno status sociale o nell’appartenenza ad un posto sul mappamondo.

In Al di là del mito (il sottotitolo è Scrittori italiani in viaggio negli Stati Uniti) uno dei capitoli è dedicato a Mario Soldati: «Gli Usa come speranza di oblio e renovatio». Il giovane Soldati desiderava sfuggire ai vincoli della cultura europea per «perdersi in qualcosa di nuovo, senza fine nuovo». È ancora possibile “perdersi in qualcosa di nuovo” negli USA?

L’America è venuta a crearsi come nazione proprio attraverso uno slancio di appropriazione del ‘nuovo’, prima attraverso i coloni che lasciarono l’Europa e poi con i pionieri, che con le loro carovane spostavano la frontiera sempre un po’ più ad Ovest. Ancora oggi, gli americani identificano nella colonizzazione del West – e quindi nel movimento sconfinato in uno spazio ignoto nel quale espandersi e rigenerarsi – il loro mito fondativo. I modelli antropologici a cui si ispira l’uomo americano sono figure perpetuamente inquiete: i pionieri, i cowboy, i cercatori d’oro, gli hobo – i vagabondi che giravano il paese saltando dai treni in corsa; così come i braccianti stagionali che si muovevano da nord a sud seguendo la stagione dei raccolti, o gli immigrati e gli operai che seguivano l’espansione delle strade e delle ferrovie verso la West Coast. Tutti questi personaggi, che hanno costruito la giovane storia degli Stati Uniti, sono un emblema di quell’ostinata ricerca del nuovo o dell’altrove che è comune all’intera società statunitense.

La tensione verso il ‘nuovo’, insomma, è intessuta nel DNA degli americani, che hanno mantenuto l’impeto esplorativo dei loro predecessori e sono assolutamente attratti da tutto quello che è inedito o innovativo: che si parli di una nuova tecnologia, di un nuovo genere musicale, di un nuovo ristorante o di un’area urbana that’s turning – come dicono loro – ossia che sta cambiando faccia attraverso processi di gentrificazione.

Se l’Italia pone valore sulla tradizione e guarda spesso al ‘nuovo’ con diffidenza e a volte anche con ostilità un po’ ottusa, gli Stati Uniti, all’opposto, accolgono il ‘nuovo’ con grande apertura, talvolta eccedendo dal lato opposto, svelando magari tracce d’ingenuità e scarso senso critico. Mentre in Italia il concetto di ‘precarietà’ è permeato da un alone inquietante e rimanda ad una destabilizzante sensazione di incertezza, negli USA la precarietà si associa a un’idea di cambiamento positivo, che appare intrigante proprio perché viene collegata ai concetti di novità e libertà.

C’è un passaggio molto bello in Oh America! di Luigi Barzini Jr., che mi pare assolutamente calzante per descrivere il momento storico che stiamo vivendo oggi. Giá negli anni Trenta, lo scrittore aveva intuito che «il carro coperto di oggi è una vecchia Ford sgangherata» e che l’americano continua «ad essere il selvaggio pioniere, il sognatore che sa realizzare i suoi incredibili sogni» attraverso il «continuo movimento verso nuovi quartieri di residenza».

Ecco, in un certo senso questo sta succedendo anche oggi. Naturalmente non posso darti una risposta generalizzante da applicare a una nazione di 328 milioni di persone, ma osservando il modo in cui molte persone hanno reagito alla pandemia, mi è sembrato di veder emergere lo stesso spirito pioneristico dei primi settlers. Quando si sono trovati di fronte una realtà scomoda o diversa da quella a cui erano abituati, in quattro e quattr’otto gli americani che potevano permettersi di farlo si sono reinventati vite completamente nuove.

Penso, ad esempio a famiglie con figli che hanno vissuto per vent’anni a Brooklyn e che dopo aver passato i primi mesi di lockdown a New York osservando la metropoli che si svuotava, con pochi click hanno venduto il loro appartamento in cambio di una casa in mezzo ai boschi a Pagosa Springs, Colorado, e si sono trasferiti in un posto in cui non erano mai nemmeno stati e che conoscevano solo per sentito dire. Penso al mio amico Nick, che da quando è stato messo in smart working dall’azienda per cui lavorava a San Francisco ha disdetto il suo contratto d’affitto, rimodellato un minivan, e da oltre un anno vive in viaggio per gli Stati Uniti, lavorando nei coffee shop di Starbucks che trova lungo il tragitto.

E se New York e San Francisco sono state le città che hanno visto il maggior numero di persone andarsene, anche qui ad Orange County si è verificato questo fenomeno, sia in entrata che in uscita. Gente che s’è trovata da un giorno all’altro senza lavoro, con un lavoro online o che semplicemente ha avuto il tempo di riflettere su domande che magari teneva in standby da anni, ha usato la pandemia come catalizzatore di cambiamento. E così, chi perché ha capito di voler essere più vicino ai suoi cari, chi perché ha deciso di risparmiare sottraendosi alla più elevata tassazione della California, non sono in pochi quelli che hanno messo in vendita la casa che avevano qui permutandola con un’altra che qualche agente immobiliare in Utah, in Arizona, in Nevada o in Texas gli mostrava in una videochiamata su Zoom.

Questi flussi migratori interni rappresentano la naturale evoluzione di quello spirito d’attrazione verso il nuovo che fa parte della mentalità degli americani, i quali crescono celebrando storie di sradicamento avvenute nella loro stessa famiglia, in cui gli zii o i nonni, magari un paio di generazioni prima, avevano scelto di abbandonare la Polonia o la Bolivia in cerca di una vita migliore altrove.

A questo proposito, è interessante notare come il verbo ‘to settle’, che vuol dire ‘sistemarsi, stabilirsi’, in inglese significhi anche ‘accontentarsi’ in senso limitativo. In un certo senso, fermarsi, fissarsi su qualcosa, che sia una posizione fisica, uno status sociale o un modo di essere, equivale per loro ad accettare il compromesso di non rinnovarsi, quando invece là fuori c’è sempre qualcosa di più grande, di più bello, di più divertente.

What’s next?’ è una domanda che ossessiona gli americani e che va a braccetto anche con l’impronta fortemente consumistica di questa società. Che la prossima cosa da provare sia un nuovo mascara, il corso di fitness del momento, l’ultima dieta miracolosa o un nuovo modo di essere rinnovandosi attraverso i consigli di self-help del guru più in voga, loro non possono perdersela.

Ecco, per riassumere, ti rispondo dicendo che l’intera fondazione della nazione americana si è basata su una promessa di abbondanza, di benessere, di felicità e di mobilità, intesa non solo in termini spaziali, ma anche nel senso di ascensione sociale, e l’attrazione per il nuovo costituisce una componente centrale di questi diritti.

‘Lo spaesamento dell’immigrato italoamericano’ è un altro argomento che approfondisci in Al di là del mito, tu parli degli italiani della fine degli anni Venti, c’era a quei tempi un sentimento di “vergogna dell’esodo”, ma oggi c’è ancora una forma di “spaesamento”?

Assolutamente sì. Lo ‘spaesamento da emigrazione’ è quel senso di smarrimento e di estraneità che si prova in un ambiente nuovo e sconosciuto, nel quale, perdendo i propri riferimenti culturali e le consuetudini del proprio quotidiano, ci si sente fuori posto.

Un turista, un viaggiatore o un borsista, che arrivano qui in America sapendo che la loro sarà un’esperienza transitoria, generalmente non vivono questo senso di disorientamento, e osservano lo spazio con curiosità euforica, perché sono consapevoli del fatto che in questa nuova realtà loro sono soltanto di passaggio. Gli expat invece, ossia coloro che si trasferiscono all’estero a tempo indeterminato e non sanno se faranno mai ritorno a vivere stabilmente in patria, avvertono lo spaesamento in modo molto più intenso, soprattutto quando arrivano qui da soli, come ad esempio è stato per me, senza avere al proprio fianco qualcuno appartenente alla cultura di riferimento con il quale poter condividere il proprio senso di estraneità.

Gli italiani in America di oggi sono lontani anni luce dai nostri connazionali del secolo scorso, che arrivavano qui col piroscafo e firmavano i documenti di sbarco con una x. Oggi si tratta perlopiù di individui culturalmente forti: “cervelli in fuga” che trovano lavoro nel mondo della ricerca, professionisti altamente specializzati o imprenditori che si mettono in gioco reinventandosi oltreoceano. Si tratta di persone che senz’altro non vengono discriminate sulla scala sociale, ma che anzi godono di ammirazione e rispetto.

Eppure, nonostante gli venga risparmiata l’onta dell’essere considerati immigrati poco desiderabili, anche loro come gli italiani di ieri devono fare i conti con la crisi identitaria che viene innescata proprio dalla sensazione di spaesamento, alla quale ci si riferisce con il termine ‘shock culturale’. Quest’espressione, che è stata coniata dall’antropologo americano Kalervo Obreg, descrive i sentimenti di stress, indignazione, rigetto, ma anche di sorpresa verso certi aspetti e valori della nuova cultura; così come il senso di confusione e ansia riguardo alla propria identità e al proprio ruolo nella nuova società che si provano in seguito ad un trasferimento non temporaneo all’estero.

Io, pur avendo vissuto in altri posti del mondo, alcuni dei quali a prima vista molto più diversi dall’Italia di quanto non lo sembrino gli Stati Uniti, credo di aver provato proprio qui il senso di shock culturale più intenso. In posti come Macao, Hong Kong, la Tailandia o Bali non ho mai avvertito un senso di spaesamento acuto. Certo, alcuni di questi luoghi li ho solo visitati e in altri ci ho vissuto in modo più transitorio, sapendo che non sarebbero stati il posto dove sarei invecchiata, mentre l’America invece è il mio luogo di residenza. Tuttavia, credo che la ragione non sia solo quella. C’è qualcosa che rende gli USA assolutamente unici rispetto agli altri paesi, sia nel bene che nel male. Ancora oggi, ogni volta che ci rientro dopo un lungo periodo all’estero, gli Stati Uniti e la loro cultura individualista all’inizio mi scombussolano un po’, così come mi riempie di meraviglia il vedere quanto la persona media sia coraggiosa, intraprendente, pronta a rischiare. E a fare l’elenco di questi pro e contro potrei andare avanti per ore.

C’è poi anche da considerare quello che viene definito lo ‘spaesamento al contrario’. Dopo l’adattamento alla cultura d’adozione, nell’expat permane sempre un senso di indeterminatezza che deriva dalla divergenza fra i valori acquisiti e quelli della cultura d’origine, nei quali per molti versi ora non si riconosce più… Questa inconciliabilità fra i valori delle due realtà fa sentire l’individuo sospeso fra due mondi, tant’è che, come ha notato anche Obreg, rientrando in contatto con la cultura d’origine, si verifica poi un ‘reverse culture shock’. E così noi ci troviamo a sentirci pesci fuor d’acqua a prescindere dalla sponda dell’oceano su cui ci troviamo.

Ognuno sviluppa strategie diverse per reagire a questa situazione. Nel mio caso, mi ha aiutato molto il trasformare queste sensazioni di spaesamento in materiale artistico. Ho iniziato ad osservare situazioni e modi di fare americani che per me erano assurdi, strampalati o insoliti con l’intento di sviscerarli e comprenderli meglio attraverso la scrittura. Da qualche anno sto collezionando brevi storie – che voglio poi raccogliere in un nuovo libro – su incontri, riflessioni e ritratti di personaggi che hanno proprio come comune denominatore il senso di shock culturale, sia in negativo che in positivo, e dove sdrammatizzo il mio senso di straniamento attraverso la chiave dell’ironia.

La parte in cui parli di “Meccanizzazione, materialismo e culto del dollaro” mi ha fatto molto pensare. Che eredità ha lasciato l’industria di Ford e di quegli anni agli americani di oggi secondo te?

Henry Ford, self made man d’estrazione rurale, che ha saputo erigere dal nulla un colosso industriale e ha trasformato un bene di lusso come l’automobile in un prodotto di utilità comune, vedeva la tecnologia non soltanto come una fonte di profitto, ma anche come uno strumento per migliorare, democratizzandola, la vita degli americani, che acquistando automobili vedevano il loro mondo diventare sempre più grande.

Se la democratizzazione dell’automobile avvenuta tramite Ford, e quella dei voli aerei verificatasi in seguito, hanno cambiato il volto della nazione americana del Novecento regalando ai suoi abitanti una maggiore libertà di movimento, gli americani di oggi stanno utilizzando i benefici della tecnologia odierna per acquistare un altro tipo di libertà.

Google, Kindle i social media hanno trasformato il mondo democratizzando l’informazione. Udemy, Teachable e Kajabe hanno esteso a chiunque la possibilità di iscriversi a corsi e imparare nuove competenze. Upwork, Fiver e Freelancer hanno reso possibile il cercare e l’offrire servizi professionali senza limiti di natura geografica. Trello, Slack e Zoom hanno consentito a persone ed aziende di connettere ed operare in modo remoto a livello globale.

In generale, la disponibilità istantanea di queste risorse ha democratizzato l’imprenditorialità. Ha ispirato un sacco di persone a cambiare vita; le ha sciolte da vincoli professionali che fino a pochi anni fa sembravano imprescindibili e le ha spinte a mettersi in proprio.

E se è verso che tramite internet, uno smartphone e un computer portatile queste risorse sono accessibili a tutto il mondo, gli statunitensi, naturalmente propensi al cambiamento e al prendersi dei rischi, le hanno abbracciate con largo anticipo rispetto agli altri paesi, in quanto per loro il senso di libertà che deriva dal non avere nessuno che ti dica cosa fare è un’aspirazione che fa parte della filosofia morale collettiva.

Per questo motivo gli americani sono molto ricettivi anche per quanto riguarda ogni innovazione che gli permetta di risparmiare tempo. E non perché il tempo sia necessariamente denaro, ma in quanto viene visto come uno strumento indispensabile per crearsi opportunità, e magari per avviare attività proprie che possano favorire prosperità e libertà.

La tecnologia, affrancando l’uomo da lavori o commissioni che sono time consuming, gli rimette a disposizione tempo che prima non aveva. Penso a siti di e-commerce, Postmates, Uber e innumerevoli altri servizi, che qui attecchiscono prima non solo perché la comodità e il comfort sono valori molto celebrati, ma anche perché sono visti come strumenti che fanno risparmiare alle persone centinaia di ore all’anno. E un’app come Rover, che ti permette di localizzare e assumere persone che ti portino il cane a passeggio, diventano immediatamente popolari perché ti restituiscono tempo prezioso che può essere utilizzato per riposare, ma anche incanalato in uno sforzo produttivo volto magari a coltivare un proprio business.

L’homo americanus dei tempi della Grande Recessione che cos’ha in comune con quello di oggi?

Beh, innanzitutto sono stati diversi i presupposti delle due crisi. La Grande Recessione, iniziata nel dicembre 2007, è stata sistemica e ha preso piede nel sistema finanziario in seguito alla bolla che si era creata nel mercato immobiliare. La crisi di oggi, innescata dalla pandemia, è invece dovuta a un arresto improvviso dell’economia, avvenuto in risposta a una crisi sanitaria.

Inoltre, mentre la Grande Recessione ha raggiunto il picco del tasso di disoccupazione al 10,6% nel gennaio 2010, la crisi provocata dalla pandemia ha visto, qui in America, il picco del 14,4% nell’aprile 2020, ma ora gli ultimi dati di febbraio 2021 la danno al 6,2%.

Al di là di questa premessa e di altre riflessioni che è meglio lasciare agli economisti, io ti posso parlare del modo in cui i californiani, per quello che posso vedere io, stanno reagendo alla situazione attuale.

Quello che si percepisce oggi, qui nel sud della California, è un grande senso di ottimismo. Certo ci sono anche situazioni di grande disagio, penso ad esempio alla popolazione di senzatetto, che è decisamente aumentata. In generale però, le persone guardano al futuro con la fiducia di essere ormai arrivati alla fine del tunnel. Complici di questo sentore comune sono decisamente sia la speditissima campagna vaccinale che la recente approvazione, il 10 marzo scorso, dell’Americam Recue Plan di Biden. Questo pacchetto di aiuti da 1900 miliardi di dollari stanziati per incentivare la ripresa è già stato descritto come una delle leggi più importanti varate in America negli ultimi decenni.

Già qualche mese prima di questi interventi, si notava però un atteggiamento molto pragmatico da parte dei singoli individui. Durante la Recessione del 2007/2009, non c’era a disposizione la vastità di contenuti e di corsi online per imparare qualsiasi tipo di abilità che invece c’è oggi. Le persone che avevano perso il lavoro cercavano di essere riassunte da un’altra azienda, confidando maggiormente nell’equazione: ‘contratti d’impiego presso una ditta’ uguale ‘sicurezza economica’.

La crisi occupazionale provocata dal Covid ha messo allo scoperto i limiti di questo presupposto. Si è capito che circostanze imprevedibili, come una pandemia, possono mettere a rischio anche i lavori in apparenza più stabili. E gli americani, grazie alla loro propensione a reinventarsi di cui ti ho detto all’inizio, hanno cercato di mettere in piedi attività in proprio così da avere più controllo sulla fonte dei loro guadagni.

L’essere costretti a lavorare in remoto ha dimostrato a tanti che è possibile essere indipendenti da una location fisica, e se fino a qualche mese fa usare Slack, Zoom e Upwork era appannaggio esclusivo della nicchia di nomadi o imprenditori digitali, ora è diventata una pratica comune. Lo stop forzato provocato dalla pandemia ha regalato alla gente più tempo per capire cosa fare della propria vita e l’ha spinta ad inseguire quei sogni che fino ad ora aveva sempre lasciato da parte.

Oggi, quando parli con la gente, sono tutti CEO, owners o entepreneurs e anche chi magari ha mantenuto un lavoro tradizionale, ha messo in piedi un side hustle, un’attività collaterale, perché ‘non si sa mai’; e se per caso quest’ultima decollasse, non ci penserebbero due volte a mollare il posto fisso per buttarcisi dentro a capofitto.

Nonostante le ovvie difficoltà, quello che stiamo vivendo è anche un periodo di un grande fermento, in cui le persone stanno uscendo dal sistema lavorativo tradizionale e si stanno creando opportunità che gli permettano di coniugare lavoro e lifestyle.

Se guardo alla cerchia dei miei amici e conoscenti, faccio fatica a trovarne uno che abbia un datore di lavoro. Marie ha lasciato la sua carriera nella contabilità per fare la fotografa freelancer. Amanda, che curava l’organizzazione eventi per una università prestigiosa, l’ha mollata per aprire una sua agenzia di wedding planning. Alison, che lavorava per una compagnia pubblicitaria, si è licenziata e ora fa la nutrizionista. E Jenny, che guadagnava $90,000 l’anno come assistente medica, ha detto goodbye all’ospedale e si è messa a viaggiare per il Sud America, dove si mantiene con il suo corso online in cui insegna medical English a chi aspira a studiare medicina negli Stati Uniti.

Di questi esempi potrei fartene moltissimi altri, e a pensarci su, la cosa mi fa molto piacere perché finalmente quello che ho fatto io anni fa non sembra più un colpo di testa, ma una cosa molto più normale.

Oggi l’America ha ancora un ‘pensiero progressivo’ da incarnare o sta rischiando (soprattutto dopo gli ultimi anni) di diventare un posto come un altro?

Le divisioni e i contrasti che sono emersi nel corso dell’amministrazione Trump hanno senz’altro messo sotto i riflettori il lato conservatore e bigotto dell’America. Questo lato purtroppo c’è sempre stato, ma negli ultimi anni si è fatto più vivo ed ha alzato di più la voce perché si è sentito forte dell’appoggio di certa parte della classe politica; un po’ come i tizzoni ardenti sul fondo del camino, che si riaccendono di rosso quando gli si soffia sopra.

Non dobbiamo dimenticare che l’America di oggi è comunque una nazione in cui il 47,2% dei votanti, oltre 73 milioni di persone, ha votato per Trump. E sebbene sia vero che tanti l’abbiano fatto per non vedersi alzare le tasse e non necessariamente perché si identificassero nei suoi valori, è vero anche che certe sue idee reazionarie non hanno rappresentato per questi elettori un fattore determinante a giustificare una rottura, e non sono state ritenute pericolose a sufficienza.

Al di là di questo dato un poco scoraggiante, una cosa che credo si noti oggi è la maggiore sollecitudine di chi non si riconosce in questi valori a condannarli esplicitamente, a far sentire la sua voce in modo forte e sicuro, esprimendo dissenso. Ed è frequente, almeno nella realtà in cui vivo io, sentire persone che si riprendono a vicenda durante una conversazione quando viene detto qualcosa che suona poco inclusivo o politically incorrect.

Se invece ci allontaniamo dal significato politico del termine ‘progressivismo’, e lo intendiamo in modo più strettamente etimologico, come una filosofia sociale che identifica nel progresso scientifico, tecnologico ed economico uno strumento per migliorare la condizione umana, allora ti rispondo di sì, perché, come pochi altri paesi al mondo, l’America sa abbracciare il cambiamento e sa guardare alla vita con ottimismo, a volte anche rischiando di essere un po’ naïve.

Questo atteggiamento è stato plasmato da premesse culturali e storiche. Non solo, come abbiamo detto prima, la nazione è stata fondata da immigranti che si trasferivano qui in nome di una speranza di vita migliore, ma negli ultimi cent’anni, al di là di Pearl Harbor e dell’11 settembre, gli americani non hanno mai visto una guerra combattuta sul territorio nazionale, o un ‘nemico’ che ha invaso fisicamente i loro confini. E anche se una parte di loro ha vissuto alcuni tremendi eventi storici in prima persona, scappando dall’Olocausto o andando a combattere in Vietnam, si trattava sempre di ‘cose brutte’ che succedevano oltreoceano, mai in patria.

Gli Europei, che hanno alle loro spalle un passato zeppo di episodi storici andati a finire male, tendono ad essere più disillusi e disincantati, più demoralizzati e meno fiduciosi. Mentre gli americani credono moltissimo nei principi della perfettibilità e del miglioramento, così come nel fatto che la loro sia la Terra delle opportunità.

Un altro fattore che li aiuta a rispondere alle turbolenze e al clima di incertezza attuali in modo più positivo è la loro tradizione culturale individualista. Edward Chang, psicologo clinico che dirige il Perfectionism and Optimism-Pessimism Lab presso l’Università del Michigan, ha spiegato in un’intervista su “The Atlantic” che gli americani, abbracciando nozioni più indipendenti del sé e celebrando la centralità della “vita, della libertà e della ricerca della felicità” (diritti inalienabili nella Dichiarazione d’Indipendenza), hanno una percezione molto più forte del controllo personale e dunque sono più inclini a protendere all’ottimismo psicologico e ad utilizzarlo per gestire le proprie aspettative in momenti di incertezza.

Sentendo di poter essere direttamente responsabili nel sagomare il proprio futuro, gli americani tendono a guardare al domani in modo fiducioso, con la consapevolezza che se lavorano sodo per ottenerli, i risultati arriveranno. In questo senso, gli statunitensi rappresentano un po’ l’incarnazione moderna del modello rinascimentale dell’homo faber fortunae suae. E a prescindere dal loro credo politico, sono uniti nel sentirsi orgogliosi e fortunati di essere nati qui, nella convinzione che l’America, nonostante le sue contraddizioni e le sue storture, sia il posto in cui più di ogni altro al mondo si possano realizzare i propri sogni.

Ci salutiamo con qualcosa di più lieve: ci fai un breve elenco di cliché sugli Stati Uniti assolutamente falsi?

Te ne dico uno al quale mi capita di pensare spesso. L’ossessione per il lavoro. Si dice spesso che gli americani siano dei workaholic, tutti fissati con l’accumulare ore e ore in ufficio o davanti al computer. Ed è vero che esistono realtà in cui la gente si ammazza di lavoro. Ma quello che spesso si dimentica di menzionare è l’altra faccia di questa medaglia, ossia la cultura del work smarter not harder, anch’essa molto diffusa e oggi decisamente più trendy.

Non si tratta di una cosa nuova, tanto che un best seller come Thrive di Arianna Huffington, libro di auto-denuncia sull’essere drogati di lavoro, in cui si ridefinisce la nozione di ‘successo’ affiancando agli obiettivi del guadagno e dei salti di carriera anche quello del benessere mentale e fisico da raggiungere attraverso pratiche di self-care, è diventato un best seller nel 2014.

E The 4 hour work week di Tim Ferris, che è stato sulla lista dei best seller nel “New York Times” per oltre quattro anni, è uscito nell’ormai lontano 2007. Questo libro, che rappresenta una sorta di Bibbia del concetto di work-life balance, e ha ispirato tantissime persone a mettere in piedi un proprio business online, ripudia il tradizionale stile di vita ‘differito’, ossia quello in cui le persone lavorano per decenni in modo estenuante, fanno pochissime vacanze e risparmiano la maggior parte di quello che guadagnano per poi rilassarsi una volta arrivati alla pensione. Al suo posto, si propone uno stile di vita fatto di meno ore di lavoro più concentrato e mirato, intervallate a tempo di qualità da dedicare alla famiglia, agli amici e a se stessi. E soprattutto qui nel sud della California, moltissime persone dalla mia generazione in giù l’hanno abbracciato, tanto che qui i coffee shop sono in pratica spazi di co-working frequentati da avventori col laptop che gestiscono il proprio business dal tavolino del bar.

Quest’incomprensione è reciproca. Gli americani ad esempio hanno la tendenza ad identificare lo stile di vita italiano con ‘la dolce vita’, quando sappiamo bene che in Italia il culto per il lavoro duro e per il sacrificio sono molto diffusi, tant’è che quando si vuole fare un complimento a qualcuno lo si definisce un ‘gran lavoratore’, mentre quello che se la sbriga in poche ore e fa ‘soldi facili’ viene guardato con sospetto.

Durante i miei primi mesi di a UCF, i colleghi si preoccupavano di accertarsi che il carico di lavoro non fosse eccessivo, supponendo che in Italia io fossi abituata a lavorare molto meno. E ogni volta che me lo chiedevano, a me veniva da ridere perché in confronto ai ritmi con cui lavoravo in Italia, lì mi sentivo molto meno sotto pressione.

Al di là del mito di Ambra Meda

Editore: Vallecchi

Pp 376 Brossura € 7,90

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