Oggi vi consiglio un libro di Giudo Cavani, Zebio Còtal del 1958.
Il libro
Zebio Còtal, rabbioso contadino del modenese, ha cinque figli, poca voglia di lavorare, e un piccolo campo che, coltivato a grano, rende soprattutto gramigna. Zuello, il figlio grande, lo ha mandato a lavorare e vivere dal fratello ricco: una bocca in meno da sfamare, un poco di denaro per ripianare i debiti e comprarsi il vino. Placida, la moglie, bersaglio prediletto della sua ira, lo sopporta in silenzio, mentre la figlia Glizia è l’unica che gli si oppone con fermezza, e insieme cercano di creare un minimo di calore familiare per sopravvivere alla povertà e alla disperazione. Poi Zuello viene cacciato dallo zio perché, ragazzone da fatica, ha sottratto poche lire per sfamarsi. Ma a casa, dove lo aspettano le “cinturate” del padre, che intanto si dà da fare sul fratellino, non può tornare. E così inizia a vagare, il primo della diaspora familiare a cui fa da sfondo una natura crudele e bellissima. Piano piano se ne andranno tutti da Pazzano, chi al Creatore, chi per cercare una sorte migliore, chi svanirà nel nulla. Anche Zebio, incespicando in mille scelte sbagliate, si allontana da casa, prima finisce in prigione, poi è disperso sull’Appennino. E con la famiglia si dissolve anche la speranza in questo romanzo dalla trama scarna e dolente, che però ha in sé oltre alla brutalità della miseria, il pathos della tragedia classica e una lingua rapida, palpitante, che resiste al tempo.
La mia lettura
“Zuello Còtal, nativo di San Rocco, frazione di Serra, era stato condotto in pianura all’età di nove anni.
[…] Lui solo non era mai libero; le sue mani erano sempre attaccate a qualcosa: o al manico della vanga, o ai comandi dell’aratro, o alle stanghe della carriuola.
Il riposo gli era misurato come il pane e non poteva guardare che la terra.”
Questo splendido romanzo che Rfb ha riportato in libreria e che io non avevo mai letto, inizia con la presentazione di uno dei personaggi più rilevanti, Zuello.
Oltre a lui spiccano ovviamente Zebio, il protagonista:
“Zebio, invece, era piccolo di statura e tarchiato. Aveva la fronte bassa, le gote paonazze, gli occhi porcini, cattivi, il naso corto e schiacciato, i baffi spioventi agli angoli della bocca, le labbra grosse e violacee.”
Sua moglie Placida
“Placida allungò le braccia sul tavolo, poi lasciò cadere fra di esse, pesantemente, la testa. S’udì il rumore della sua fronte sul legno.”
E la figlia Glizia con “la voce maschia”.
E’ una storia di disperazione, una storia primitiva perché a parlare non sono tanto i sentimenti, il cuore, quanto piuttosto i bisogni più elementari e primordiali. La terra è lo sfondo principale, alla terra sono attaccati i personaggi, solo ad essa possono chiedere qualcosa in cambio della fatica.
Il cielo è quasi sempre turchino e sgombro di nubi, al contrario della vita dei personaggi “la vita asprigna dei campi ” che illividisce gli animi e arriva a “invelenire di rabbia il sangue”.
Una vita di stenti che non val la pena di essere vissuta.
Tale è l’aridità dei sentimenti che descrive Cavani che ad un certo punto ciò che appare chiaro è che la morte non è poi così sgradita e infatti Zebio ad un certo punto dice:
“ci ho fatto il callo alle disgrazie, poi ci sono dei mali peggiori della morte”.
La figura materna di Placida è unico motivo di tenerezza e amore per i figli che spesso la difendono, nel suo grembo cercano rifugio, il pensiero solo di lei allevia gli affanni e la tristezza di Zuello lontano da casa.
E’ bellissimo e struggente questo passo. Zuello guarda da lontano:
“Il padre, piccolo, tozzo, svelto nel tagliare, nel sollevare e deporre le manelle; la sorella svelta come il padre, ma meno precisa nei movimenti; la madre sottile, nera, stanca, che fra una manella e l’altra stava ritta qualche istante per riprendere fiato.”
La casa è inospitale, non è luogo sicuro perché è lì che si consuma la violenza di Zebio sulla moglie e i figli:
“La casa di Zebio Còtal, costruita un trecento metri più giù, su di una altura cretacea di colore plumbeo, era una bicocca di sassi, dal tetto convesso e dalle finestre buie; pareva che tutto quel sole che batteva contro i suoi muri non riuscisse a entrare nelle stanze.”
Guido Cavani riesce a distillare il dolore dei suoi personaggi che ci appaiono vestiti unicamente delle loro paure, lo stesso Zebio, il cattivo, incarnando lo sconfitto non riesce a far rabbia, è come se leggendo si arrivasse a giustificarlo, così è stato per me che ho visto in lui solo un uomo consumato dalla miseria e incapace di cercarsi in petto qualunque forma d’amore.
“non mi resta che dimenticarmi di quel poco di passato burrascoso che ho dietro di me, distruggere quei due documenti che ho in tasca, e soltanto io saprò chi sono. Zebio, ricordati che ancor prima di morire ti stai cancellando dalla terra.”
Zebio Còtal è un romanzo magnifico, antico, più dei suoi anni (è uscito per la prima volta nel 1958) nel senso che la prosa di Cavani e la società contadina che racconta hanno un sapore ottocentesco.
La prefazione l’ha scritta Omar Di Monopoli, sono d’accordo con lui quando dice:
“Guido Cavani, poeta modenese cui spetterebbe una rivalutazione postuma definitiva perché trattasi di scrittore maiuscolo”
Non sbaglio, sono sicura, a consigliarlo a tutti.
Zebio Còtal di Guido Cavani
Editore: Readerforblind
Collana: Le polveri
Anno edizione: 2021
In commercio dal: 23 aprile 2021
Pagine: Brossura € 15,20