Molti DS e docenti si preparano ad abdicare al proprio dovere etico come "ricompensa" per le difficoltà derivanti dal Covid-19
E’ tempo di scrutini nella Scuola italiana. Per chi non è del ramo, è quella fase finale dell’anno scolastico in cui si fa una considerazione, prima privata, poi semi-pubblica e infine pubblica, non solo sul rendimento che ogni studente ha saputo offrire, ma anche sul livello di crescita, di maturazione, di consapevolezza che ogni allievo ha mostrato lungo l’anno scolastico.
Possiamo dire che noi insegnanti italiani facciamo gli scrutini in mille modi diversi, e molti di questi hanno poco di pedagogicamente valido. So di colleghi che confondono lo scrutinio per la mera media aritmetica. Hanno una loro personale legenda che traduce in valore numerico ogni e qualunque simbolo del proprio personalissimo alfabeto della valutazione: ecco che un “+” diventa uno 0,25 e quindi un “-” uno speculare “-0,25”. Una “i” di impreparato diventa un “2”, dieci ore di assenza si trasformano in “-0,5” e così via, in una terrificante collezione di pesi, contrappesi, bilancini, premi e penalità.
Il terrore del ricorso al TAR
Ne conosco altri per i quali la sola idea di dare un 5 in pagella, e quindi un esame di recupero, è considerato come un tentativo di istigazione al suicidio contro lo studente cui si dà l’insufficienza. Peggio ancora: tra coloro che sono insegnanti solo sulla carta, ma in realtà sono agognanti di pensione in servizio permanente effettivo, il rimando è visto come una inutile perdita del proprio tempo. In termini di burocrazia, un rimando o una bocciatura richiedono molto più tempo nel riempire scartoffie che non una promozione non meritata. Ed espone al sempre temutissimo “ricorso al TAR”, che come dico in Lo so f@re! Guida all’apprendimento misto e all’insegnamento (anche) a distanza(Mondadori Education, 2020) si potrà risolvere solo quando si creerà un ramo ad hoc della giurisdizione scolastica.
Docimologia, questa sconosciuta
Sempre nel mio volume ho spiegato anche il motivo di questa forte carenza della valutazione del mondo scolastico italiano. Riassumo qui in: mancanza assoluta di una formazione docimologica del corpo insegnante. I governi italiani da molti anni non si pongono più la questione della formazione tecnica degli insegnanti dello Stato, ma sul piano docimologico (la scienza della valutazione, per chi non avesse mai sentito il termine), la posizione di arretramento della Scuola italiana è addirittura spettacolare.
Non ne sappiamo nulla, come ministero dell’Istruzione e quindi come corpo insegnante, almeno dal 1922. Da quando cioè fu fondata la docimologia da Louis Charles Henri Piéron. In mancanza sia di un criterio che di un canone, ciascuno fa a modo suo. Ecco che l’assenza di un metro uniforme di valutazione nella scuola pubblica italiana diventa uno dei suoi problemi strutturali. Un 6 di un docente potrebbe essere equivalente all’8 di un altro, e quel che è più grave è che anche un 5 di un insegnante potrebbe chiedere lo stesso sforzo e impegno dell’8 di un suo collega. Alla via così, al modo di Arlecchino.
Qualcosa di meglio (ma poco) si sa della differenza fra valutazione formativa e valutazione sommativa. Molti, troppi, interpretano “valutazione formativa” con un “non si rimanda, non si boccia, né ora, né mai”. E buona notte.
L’intervento dello psichiatra
Su Doppio Zero è apparsa una utile intervista allo psichiatra Gustavo Pietropolli Charmet, a cura di Anna Stefi. Tanti gli spunti di cui vorrei parlare, ma per economia mi soffermo solo su queste righe: “Molti docenti amici, di grande volontà, rischiano di trasformare la scuola in un servizio: ma se la scuola è un servizio hai dei clienti e devi soddisfarne le esigenze, e dunque è finita l’educazione.”
Il più grande fallimento di molti licei e istituti dell’anno scolastico 2020/21, è appunto questo. A fronte di una situazione inedita, la pandemia, i primi ad abdicare al proprio ruolo sono stati i DS, poi molti docenti. Si è pensato, erroneamente, che non si dovesse più pretendere né domandare nulla agli studenti che, poverini, sono ancora stravolti dalla pandemia e dal castigo dell’isolamento.
La scuola come servizio IPPP
Così facendo abbiamo smesso di essere scuola e siamo diventati uno scadentissimo, mediocre servizio di I.P.P.P.: indulgenza plenaria, perpetua e a prescindere. Dando a molti di loro, quelli che non si sono impegnati, l’illusione che il mondo, fuori di casa, è tutto sommato simile a quello che c’è in casa: una eterna bambagia, un non-luogo dove l’importante non è nemmeno presentare il proprio corpo – figurarsi il proprio pensiero – ma solo esporre in modo involuto le proprie difficoltà, meglio se certificate.
Ecco che una difficoltà dell’apprendimento diventa equivalente allo Scudo di Capitan America contro qualunque rimando a settembre, figurarsi una bocciatura. Se poi negli ultimi 3-4 anni allo studente è morto un parente (ma presto anche un cane o un gatto), troverai in sede di scrutinio la DS o la collega che te lo ricorderà, come a dire: “Davvero vuoi mettere 5 in Storia a questo povero Cristo cui è morta la nonna tre anni fa?” E tu lì, a domandarti se questa cosa che ogni tanto i nonni e, il Caso non voglia, anche i genitori muoiano prima dei nipoti e dei figli sia una novità del 2020/21. O se la nonna avrebbe preferito morire dopo suo nipote, di 70 anni più giovane. ça va sans dire, quando te lo ricorda la preside, la dimensione di pressione psicologica si accresce, e il docente che fa il suo dovere si sente nel paradosso di sentirsi in colpa per aver fatto il suo dovere.
La scuola come comunità educante
Eppure la Scuola dovrebbe essere una comunità educante. Non un luogo di consolazione spirituale e indulgenza plenaria. E’ sui banchi di scuola che i bambini e gli adolescenti cessano per una parte significativa della loro vita di essere “figli” e diventano “studenti”.
E’ qui, da noi, a scuola, che questi piccoli cittadini italiani cominciano a confrontarsi con lo Stato italiano. I suoi valori, le sue idiosincrasie, le sue mancanze, le sue difficoltà, ma anche le sue eccellenze, le sue asticelle, e il senso del dovere che richiede.
Il lavoro di uno studente è, scusate la banalità, studiare, formarsi e informarsi. Processi complessi che non si apprendono solo sui libri, nei compiti in classe e nelle interrogazioni, ma nel vivere giorno per giorno a contatto con una comunità diseguale, di pari e di superiori. Relazioni, reazioni, capacità di assorbimento di una critica o di un elogio. Sapersi confrontare con opinioni diverse dalla proprie, anche. Proprio come sarà nel mondo del lavoro e nella vita in generale. In questa comunità di non solo pari, il proprio lavoro (e non già la persona: fatemelo sottolineare… noi insegnanti valutiamo il lavoro degli studenti, non la loro persona) deve essere valutato da chi, si spera, sia un adulto almeno ben informato sulla propria materia. E lo ripeto: se è giusto che noi prof non si guardi al solo rendimento di ogni allievo, e che si abbia una visione olistica su ogni scolaro, non dovremmo mai scambiare questo per un giudizio sulla persona, ma sul suo punto di partenza come studente e il suo punto di arrivo.
I danni del 6 politico
Proprio perché la valutazione non può essere solo quella relativa al rendimento (che pure ha una sua centralità) non tutti gli studenti meritano la promozione alla fine di un anno. Quelli che hanno plagiato, truffato, che non sono venuti a scuola, che hanno mancato di rispetto ad altri studenti o ai loro docenti, non possono essere promossi. Quelli che non si sono impegnati, o che hanno imparato a memoria ma non hanno capito nulla, beneficerebbero di un rimando. Se nel 2019/20 una ministra dell’Istruzione inadeguata ha imposto un 6 politico a tutti, è molto grave che quel tipo di mentalità lassista si stia facendo spazio nella mentalità di DS e docenti anche del 2020/21.
Abbiamo preso la china del “non si boccia nessuno, c’è stata la pandemia”. Significa tradire i nostri studenti e fornire loro un disservizio, una illusione e una amarezza: che la vita è tutta una bambagia, che l’impegno e la maturazione di ciascuno è identica per tutti, che impegnarsi non vale la candela, che la Scuola dopo tutto è una finzione e che “anything goes“, qualunque atteggiamento passa. Altro che “whatever it takes“, caro Presidente Draghi.