Un test per iniziare: ti reputi fortunato o sfortunato?
Immagina di trovarti in banca. Ad un tratto una banda di rapinatori incappucciati irrompe nell’edificio e inizia la trafila del “mani in alto” e “fermi tutti”, come si vede nei film.
Uno dei rapinatori però inizia a perdere la calma e spara un colpo.
Il proiettile ti centra a un braccio.
I rapinatori spaventati scappano via e arrivano i soccorsi.
Ti considereresti fortunato o sfortunato?
Il Professor Richard Wiseman, tra i più famosi studiosi nel campo della fortuna, crede di conoscere la tua risposta.
Se sei una persona negativa, ti diresti sfortunato. Iniziando a pensare a tutte le assurde coincidenze che ti hanno portato in banca proprio quel giorno e a quell’ora, e al fatto che su 50 persone presenti, il proiettile abbia centrato proprio te.
Con un atteggiamento positivo ti diresti invece fortunato. Il proiettile avrebbe potuto colpirti alla testa e saresti morto.
Non è fortuna. Non è sfortuna. Sono i tuoi pensieri.
La provocazione di sopra è uno dei passaggi del saggio “The Luck Factor” del già citato Richard Wiseman, con cui si afferma quella che appare una verità sottovalutata: la fortuna e la sfortuna non esistono, siamo noi a essere più o meno orientati a interpretare come positivo o negativo ciò che accade nelle nostre esistenze.
A sostegno di questa tesi è spesso citato uno dei suoi più celebri esperimenti: i “contatori di foto del giornale”.
Vennero formati due gruppi, da una parte chi si riteneva fortunato, dall’altro quelli convinti di essere portatori sani di sfiga. Wiseman diede ad ogni persona una rivista, chiedendo di contare quante immagini conteneva. Chi si riteneva “sfortunato”, si impegnò coscienziosamente nella conta impiegando qualche minuto. Al contrario, la maggioranza di quelli che si ritenevano fortunati aveva finito dopo appena un paio di secondi: avevano notato a pagina 2 una nota che diceva: “Non contate oltre, questa rivista contiene 43 foto”.
Forte di questo e altri esperimenti, Wiseman arrivò anche a pensare a una scuola della fortuna in cui allenare le persone ad attrarre, o almeno a notare ed apprezzare la buona sorte, all’insegna di quattro principi fondamentalI: “essere abili a notare le opportunità, prendere decisioni fortunate seguendo le intuizioni, creare profezie che si autoavverano attraverso aspettative positive e adottare un resiliente atteggiamento che trasforma la sfortuna in bene”.
Sarà un caso ma…
Tuttavia, l’idea che qualcuno sia semplicemente più abile a notare le opportunità o più positivo riguardo ciò che gli capita, lascia sempre qualche dubbio.
Una storia emblematica potrebbe essere quella di Frane Selak, insegnante di musica croato, conosciuto come “l’uomo più sfortunato e più fortunato del mondo”.
Nel gennaio del 1962, quando aveva 32 anni, si trovava a bordo del treno in viaggio da Sarajevo a Dubrovni, quando improvvisamente il treno deraglia a causa di un guasto ancora oggi poco comprensibile sino a precipitare in un fiume ghiacciato, uccidendo 17 passeggeri. Non lui però, ritrovato e salvato dai soccorritori.
Un anno dopo, nel 1963, Selak si trovò a dover prendere con urgenza un aereo per raggiungere la madre malata. Riuscì a salire a bordo per una pura casualità, dopo aver pregato il personale. Era il suo primo volo e non fu affatto tranquillo: entrambi i motori smisero di funzionare e l’aereo precipitò. Vi furono 19 vittime, ma ancora una volta Selak ne uscì miracolosamente illeso.
Tre anni dopo si ritrovò coinvolto in un terribile incidente a bordo di un autobus. Anche qui lo stesso esito: 4 vittime, lui giusto qualche livido.
Nel 1970 invece, forse ormai terrorizzato dall’affidare la propria vita agli altri, Salek decise che avrebbe viaggiato solo a bordo della sua auto. Purtroppo però questa prese fuoco mentre viaggiava e Frane fu costretto a lanciarsi dal veicolo in movimento. Neanche a dirlo, si salvò.
Così come fece ancora una volta nel 1996 quando, sempre a bordo della sua auto, per evitare uno scontro frontale con un camion delle Nazioni Unite, finì fuori strada precipitando per oltre 300 metri da un dirupo. Anche qui, è quasi noioso ripeterlo, si salvò.
L’ultimo episodio degno di nota risale al 2003: quando vinse una lotteria – lui che non era un giocatore abituale – incassando oltre un milione di dollari.
Molto più sintetica invece la storia di Mike Edwards, violoncellista della Electric Light Orchestra.
Si trovava a bordo della sua auto, nei pressi della A381 ad HalwellIl, quando venne centrato da una balla di fieno che scendeva a tutta velocità da una collina, centrandolo in pieno e uccidendolo sul colpo.
Per tanto così…
La ventinovesima edizione della Champions League, tornando a da dove eravamo partiti, si è decisa per “un tanto così”. Come sempre.
Al netto di ogni discussione tattica, del fatto che “Sì, il Chelsea ha giocato meglio”, basti riguardare l’azione del goal partita.
Minuto 42. Mount riceve e stoppa alla perfezione un pallone tutt’altro che facile. Alza la testa e vede il compagno in profondità. Lo lancia.
Il pallone sembra telecomandato e non si infrange contro alcun giocatore. Il manto sembra il panno di un tavolo da biliardo, appena sistemato e senza pendenza.
Havertz riceve.
Ederson esce alla disperata fuori dall’area di rigore. Riesce anche a intercettare il pallone – per quanto sarebbe fallo – ma la palla schizza in maniera beffarda dall’altra parte, lasciando che Havertz segni goal e partita.
Se la palla fosse rimbalzata diversamente, probabilmente parleremmo di un’altra partita. O forse no, avrebbe vinto ugualmente il Chelsea.
Ma se i “Blues” non avessero vinto, Havertz sarebbe stato certamente messo in croce per aver gestito male un’occasione netta.
Il calcio è così.
Come Del Piero contro la Francia nel 2000. Ci ritenevamo già campioni d’Europa: avanti di un goal, Alex ebbe almeno due occasioni nitide di chiudere la faccenda. E invece prima Willtord e poi Trezeguet mandarono all’aria ogni sogno azzurro.
Proprio Trezeguet però ci regalò il mondiale del 2006, spaccando la traversa e dando a Grosso l’occasione di urlare “Campioni del mondo. Campioni del mondo. Campioni del mondo. Campioni del mondo.”
In realtà ci sarebbe anche la sfortuna di Bruno Pizzul, uno che di mondiali ne ha raccontati tanti, ma non quello dell’82 né quello del 2006.
Ha commentato invece quelli magici e assurdi del 90 e del 94. Il primo con Zenga che uscì a farfalle su Caniggia.
E soprattutto del 94, quando a Pasadena Baggio calciò inspiegabilmente alle stelle l’ultimo calcio di rigore.
Ecco, Baggio è forse l’emblema di questa storia su fortuna e sfortuna. La fortuna di essere baciati di un talento come pochi, forse come nessuno. E la sfortuna di subire un infortunio dopo l’altro. La fortuna di trovare sempre chirurghi bravi e concentrati nell’obiettivo di rimetterlo in piedi. Della sua forza di volontà, certamente. Ma anche di quel tiro contro la Francia, ai Mondiali del 98, che uscì per “tanto così”.
Nel documentario Netflix che in questi giorni ne celebra la storia, Baggio dice: “dove finiscono le mie capacità, inizia la mia fede”
Ecco, a volte è questione di fede. O di altro.
Ma soprattutto di accettare, ricordare e tenere in considerazione, ciò di cui gli stoici erano maestri: ci sono cose che controlliamo e altre no.
E sono cose che controlliamo così, così.
Barnett Helzberg Jr. è un uomo fortunato “del terzo tipo”, quel genere di fortuna per cui usiamo il detto “la fortuna aiuta gli audaci”.
Nel 1994 ha aveva già costruito una catena di gioiellerie di grande successo con un fatturato annuo di circa 300 milioni di dollari. Un giorno stava passando davanti al Plaza Hotel di New York quando sentì una voce di donna: “Mr. Buffett” rivolgendosi all’uomo accanto a lui.
Helzberg si chiese subito se quell’uomo fosse “quel” Warren Buffett, uno degli investitori di maggior successo in America.
Non lo aveva mai incontrato, non c’era Internet a rendere tutte le persone famose ancora più famose e riconoscibili, ma aveva letto di criteri finanziari che Buffett ha utilizzato al momento dell’acquisto una società. Helzberg aveva da poco compiuto sessant’anni, stava pensando di vendere la sua azienda e si rese conto che il suo poteva essere il tipo di azienda che interessava a Buffett.
Helzberg colse l’occasione, si avvicinò allo sconosciuto e si presentò. Si trattava davvero di Warren Buffett, e l’incontro casuale si è rivelato altamente fortuito perché circa un anno dopo Buffett accettò di acquistare la catena di negozi di Helzberg. E tutto perché a Helzberg è capitato di passare mentre una donna stava pronunciando il nome di Buffett all’angolo di un’affollata strada a New York.
Questo è il genere di storie che riguarda quella zona grigia tra cosa controlliamo e cosa sfugge ad ogni possibile controllo. Spetta a noi essere attenti al fatto che una donna urli “Mr Buffet”, e spetta ancora a noi avere la faccia tosta di presentarci a uno sconosciuto. Così come è chiaro che senza una catena di gioiellerie che fattura 300 milioni di dollari, serve a poco sia ascoltare la signora sia avvicinarsi ad uno sconosciuto miliardario.
Non rientra però tra le cose che controlliamo, ed è bene ricordarlo, il fatto che Mr Buffet ci stia ad ascoltare davvero. Che la settimana prima magari sia stato rapinato e abbia terrore di avvicinarsi a uno sconosciuto. O che quel giorno abbia un terribile mal di denti e sia di pessimo umore.
O che sia entusiasta della nostra offerta ma non muoia quella notte stessa in viaggio per chissà dove… o ucciso da una balla di fieno impazzita, come Mike Edwards.
Cattivi risultati o cattive decisioni?
Ci sono tanti modi per raccontare la storia dell’umanità, e uno può essere: dalla superstizione alla presunzione.
Ripassando la storia, gli uomini hanno dapprima attribuito al soprannaturale ogni evento. Positivo o negativo, era sempre merito o colpa degli dei.
La religione cattolica, sperando di non aprire alcuna polemica, va nella stessa direzione: “ci sarà un piano” – “Dio avrà un piano”, è un invito a non farsi troppe domande, ad accettare, accettarsi, perdonare e perdonarsi.
Nel Medioevo, il così detto “secolo buio”, sulla scia delle dottrine religiose e di una cultura scientifica molto vicina alla magia, se si vedeva un mendicante all’angolo della strada si provava pena. Spiaceva vedere un uomo ai margini di tutto perché c’era la convinzione che fosse la volontà divina a volerlo lì. E che quell’uomo, in fondo, avrebbe potuto fare poco o niente per cambiare il suo destino.
Andando veloce fino ad arrivare a oggi, se vediamo qualcuno ai margini della strada iniziamo a pensare a quante scelte sbagliate avrà fatto. È facile immaginarlo alle prese con la droga, un poco di buono senza alcuna volontà e dignità sufficiente per tentare di rimettere ordine alla propria vita.
Così come siamo soliti credere al fatto che “la mela non cade mai troppo lontano dall’albero”, applaudendo senza troppe domande coloro che eccellono, dimenticando che se sono lì non è merito soltanto delle proprie scelte ma anche quelle delle generazioni precedenti, che gli hanno permesso di studiare in certe scuole, sviluppare una certa mentalità, entrare a contatto con il giusto network.
O guardiamo con disprezzo o poco interesse coloro che combattono, sempre in bilico per pagare l’affitto, dimenticando stavolta che, probabilmente, non hanno avuto gli stessi privilegi né sono partiti nel gioco della vita esattamente dallo stesso punto.
La presunzione, che a volte fa comodo, è quella di identificare ciò che abbiamo con ciò che abbiamo fatto, prestazioni e risultati. E lavorare a ritroso: giudicare in base ai risultati.
Se chiediamo alle persone di indicare le migliori e le peggiori decisioni prese durante l’anno, le risposte non terranno affatto conto del processo decisionale, ma seguiranno uno schema preciso:
– decisioni migliori, quelle che hanno portato a risultati buoni o migliori,
– decisioni peggiori, quelle che non hanno portato i risultati sperati o ne hanno portati di cattivi.
Imparare dal poker
“La ricerca della certezza ci ha aiutato a tenerci in vita per tutto questo tempo, ma può avere un effetto devastante sulle nostre decisioni in un mondo incerto. Quando pensiamo a ritroso valutando i nostri risultati per capire perché le cose accadono, siamo suscettibili a una varietà di trappole cognitive, come assumere una causalità specifica quando c’è solo una correlazione o scegliere i dati che confermano la narrativa che preferiamo. Siamo disposti a cercare di far entrare pioli quadrati in fori rotondi pur di mantenere l’illusione di uno stretto rapporto tra i nostri risultati e le nostre decisioni.”
Sono parole di Annie Duke, nome celebre nell’ambiente del poker, ma anche in quello aziendale. È tra i primi ad aver intuito le potenzialità del poker in termini di gestione dei rischi e decision making. Forte del suo background, ha passato gli ultimi anni a cercare di diffondere una cultura orientata al prendere buone decisioni anziché lasciarsi guidare dai risultati.
In “Decidere senza scommettere”, racconta di quando si trova a commentare i tornei di poker. Un aneddoto molto istruttivo.
“Con le carte scoperte posso determinare la probabilità di ogni giocatore di vincere la mano o meno, e di solito comunico queste percentuali al pubblico. In uno di questi tornei, annunciai che un giocatore avrebbe vinto con il 76% di probabilità. Distribuii le carte rimanenti, l’ultima delle quali fece vincere il giocatore che aveva meno probabilità di vincere, secondo le carte a sua disposizione. Tra gli applausi, qualcuno tra il pubblico gridò: “Annie, ti sbagliavi!” Con lo stesso spirito risposi che non mi ero sbagliata. “Ho detto che avrebbe vinto con una probabilità del 76% non del 100%”. Qualche mano dopo, accadde quasi la stessa cosa: due giocatori misero tutte le loro fisches nel piatto e girarono le carte a faccia in su. Uno aveva il 18% di probabilità di vincere e l’altro l’82%. Di nuovo, il giocatore con la percentuale peggiore vinse il piatto. Questa volta lo stesso ragazzo tra la folla gridò: “Aveva solo il 18% di possibilità!” In quel momento cambiò la sua definizione di cosa significasse aver sbagliato. Quando pensiamo in anticipo alle possibilità di risultati alternativi e prendiamo una decisione basata su tali possibilità, non pensiamo automaticamente di aver sbagliato quando le cose non funzionano. Significa solo che si è verificato un evento in un insieme di eventi possibili”.
Vittoria? Sconfitta? Solo uno dei possibili eventi.
Comprendere che ogni risultato è solo uno dei possibili eventi che si potevano verificare, fa tutta la differenza del mondo.
È la differenza tra dire “questa volta ho perso” e “faccio schifo”. E chiaramente tra giudicare “questa persona non ha oggi o ancora raggiunto risultati” o “questa persona non è all’altezza”.
È la differenza tra un mondo che finge di giocare in parità, in cui tutti hanno davvero le stesse possibilità, e un mondo in cui ciascuno ammette i propri privilegi e cerca di aiutare chi è indietro.
È la differenza di pensiero che serve più che mai in questo momento.
La pandemia ha creato e creerà schiere di perdenti.
Perdenti, non scarsi. Non cattivi. Non sfigati.
Gente che ha visto verificarsi quell’evento negativo per una serie di circostanze, molte delle quali fuori dal proprio controllo.
È qualcosa che non riguarda solo l’oggi ma soprattutto il domani. C’è un’intera generazione, che domani si ritroverà per via della pandemia con un’istruzione deficitaria e ampie lacune.
C’è un’intera generazione che non potrà accedere a istruzione di livello per via dei problemi economici dei genitori che pure sino a poco prima della pandemia avevano fatto tutto bene e stavano raccogliendo i risultati.
Ci aspetta un domani condizionato dall’oggi. Come sempre. Ma con molta più casualità che causalità.
Bisogna tenerne conto.
Bisogna impararne a tenerne conto.
E, per quanto da juventino mi faccia un certo effetto dirlo: no, vincere non è l’unica cosa che conta.
Per approfondire:
Della dicotomia del controllo e dell’importanza di immaginare scenari futuri: Alternative, di Sebastiano Zanolli
Il libro citato di Annie Duke : Decidere è una scommessa: Prendere decisioni intelligenti quando non hai tutte le informazioni
Una lettura fantastica sulla casualità e le decisioni: L’intelligenza del rischio, di Dylan Evans.
Per cimentarsi con il poker e migliorare il proprio processo decisionale, il mio amico Matteo Fini ha creato un programma fantastico per professionisti, imprese, persone che vogliono imparare divertendosi. Dai un’occhiata a Pokertalk