“Questo libro cambia la storia d’Italia”, si legge sulla scheda di presentazione dell’editore de Il libro dell’incontro (Il Saggiatore, 2015, 22 euro). Viene da domandarsi quando i responsabili stampa delle redazioni editoriali impareranno ad abbandonare una volta per tutte il gusto dell’iperbole infinita.
Perché al di là del banale fatto che no, questo libro non cambia la storia d’Italia, c’è che quando un ricercatore o un giornalista legge un’affermazione simile la prima reazione è di alzare un sopracciglio. E quel sopracciglio è destinato a non abbassarsi più lungo tutte le 472 pagine del volume, curato e scritto da Guido Bertagna, un padre gesuita, dal criminologo dell’Università di Milano Bicocca, Adolfo Ceretti, e dalla professoressa di diritto penale della Cattolica, Claudia Mazzucato. Dirò subito che finita l’interessante e stimolante lettura, chi ha dimestichezza coi temi trattati da questo lavoro rimane col sapore di una grande occasione mancata. Vediamo come e perché.
La necessità di una memoria condivisa e ufficiale
Il volume s’inserisce in un filone molto prolifico, quello della necessità di una memoria condivisa e ufficiale di uno dei periodi più bui della storia italiana: gli anni di piombo. L’incontro cui fa riferimento il titolo è dunque quello fra alcuni ex terroristi e alcune vittime del terrorismo italiano degli anni Settanta.
Il progetto è pensato come risultato di un esperimento sociale e come work in progress, anche se al momento in cui scrivo gli allegati elettronici pubblicizzati non sono ancora disponibili. L’esperimento sociale è durato sette anni ed è costituito da una serie di saltuari incontri privati tenuti dal 2009 al 2014 presso conventi e nel Comune di Torrita Tiberina, in Sabina, dove è seppellito Aldo Moro. A questi incontri hanno partecipato anche i tre curatori, in qualità di mediatori, un gruppo di cosiddetti estranei chiamati “primi terzi” e una dozzina di “garanti”, fra i quali anche Gherardo Colombo.
Il principio della giustizia riparativa
I tre curatori richiamano esplicitamente la categoria della giustizia riparativa, un principio che sorge all’interno del diritto penale canadese al termine degli anni Ottanta, come branca del Programma di riconciliazione fra vittima e reo, e si sviluppa poi con grande fortuna soprattutto in ambito anglosassone, al punto da essere stato riprodotto anche all’interno della popolare serie TV How to Get Away with Murder.
Occorre notare che fra gli esperti di giustizia riparativa c’è molta incertezza riguardo al fatto se si possa applicare questa pratica di dialogo e ascolto vittima-reo nei casi di terrorismo politico discriminatorio, anche considerando che la giustizia riparativa fu pensata in origine per risolvere reati minori, contro le cose e non le persone.
Il tentativo dei curatori è nobile: giungere a una forma di pacificazione nazionale da far sviluppare all’interno del tracciato della giustizia riparativa. Il problema è che quel tracciato, ancorché innovativo per il sistema penale italiano, è qualcosa di molto delicato e ben definito da quasi 35 anni di teoria e pratica, e questa operazione culturale manca in modo alquanto goffo di rispettarne i crismi.
Cosa dice il criminologo Howard Zehr
Infatti, una delle caratteristiche principali delle pratiche di giustizia riparativa, così come l’ha stabilità il pioniere di questa branca di studi, il criminologo statunitense Howard Zehr, è quello di dare alla vittima la possibilità di mettere un punto, di rendere un adeguato senso di superamento psicologico (closure) verso l’ingiusto trauma subito, anche (ma non esclusivamente) tramite il confronto diretto con chi ha causato quel trauma.
Gli americani parlano chiaramente in questo senso di “victim-oriented approach” dunque, di un approccio che si impernia sulla cura della vittima, al fine di far ottenere a lei un senso di ristoro, rendere un senso a un evento criminale e luttuoso che in realtà un senso non ce l’ha, per parafrasare Vasco Rossi.
Sempre leggendo il Libro dell’incontro in controluce rispetto ai testi scientifici di Zehr, nell’esperimento italiano si ignora il “principle of personalism”, secondo il quale un crimine è anzitutto contro delle persone e solo poi è un’azione contro la legge.
Il bisogno della vittima
Si trascura che il bisogno di risposte, di informazione, di conoscenza della realtà di come si sono svolti i fatti criminali è un elemento fondamentale per la vittima per poterla coinvolgere e ingaggiare in qualunque processo di giustizia riparativa.
Questo, sempre secondo Zehr, ma anche secondo Letschert, Staiger e Pemberton, è invece un bisogno decisivo della vittima, che le consente di riacquistare il controllo sulla propria vita e su quella zona di passato che altrimenti non passa, ridandole l’opportunità di avere una storia da raccontare.
Sono chiari i risvolti anche terapeutici di tutto ciò: la vittima viene a sapere cosa è successo, e perché è successo proprio a lei, o al proprio parente.
Ancora, da parte del reo occorre una genuina ammissione di “accountability and responsibility”, prima che di ovvio pentimento per l’azione criminale commessa: è quello che Zehr chiama “principle of reintegration”, quando cioè una società aiuti il reo a farsi carico delle sue violazioni al fine di essere reintegrato, ri-accettato nel consesso civile.
Infine il “principle of reparation” indica che l’obiettivo primario dei processi di giustizia riparativa sia la riparazione, per quanto possibile ed eventualmente anche in forma simbolica, del danno subìto dalla vittima, anziché la punizione del reo.
Un esperimento fallace
L’esperimento raccontato ne Il libro dell’incontro è dunque fallace riguardo a tutti questi punti fondamentali: l’aspetto più grave è che questo esperimento sembra seguire un chiaro “terrorist-oriented approach”. A cominciare dal fatto che i curatori non usano mai il termine “terrorista” o “ex terrorista” nei riguardi degli ex perpetratori, bensì li investono, sin dal sottotitolo, del nobilitante titolo di “persone appartenenti alla lotta armata” (35), nel nome dell’idea di ”ospitare vissuti diversi” (24).
Ancora, il testo di Bertagna e soci confonde (22) il gruppo di ex terroristi e vittime con quello delle “comunità di memoria” di cui parla il sociologo israeliano Avishai Margalit, anche se poi gli stessi curatori ritengono una condivisione di memorie “impresa non solo impossibile, ma addirittura fuorviante” (23).
L’insostenbile “equiprossimità”
Ma su tutto, i tre curatori dichiarano in modo alquanto sbalorditivo la loro “equiprossimità”, tradotta come “vicinanza a entrambe le parti” (25). O, usando un luogo comune in questo caso di dubbio gusto, “le due facce della stessa medaglia” (53).
Questo dell’equiprossimità è un concetto più chiaro ed elementare di altri, che abbandona qualunque parvenza di “victim-oriented approach” ma che anzi equipara il significato umano, politico-filosofico e sociale delle azioni degli ex terroristi – azioni da loro determinate in realizzazione di una precisa volontà personale – a quello subìto dalle vittime, ovviamente privo di alcuna volontà di essere coinvolte.
Le condivisibili accuse di Luca Tarantelli
Alla luce di queste mancanze, e anche considerando che il progetto ha incluso solo alcuni terroristi di sinistra e un contenuto numero di vittime, selezionate in modo non chiaro, è più semplice comprendere il motivo che ha spinto diverse vittime (fra loro, ma non solo, Luca Tarantelli, autore per altro di un pepato intervento durante la presentazione del volume giovedì 19 gennaio 2017 alla sala Zuccari del Senato, davanti al presidente Pietro Grasso e al ministro della Giustizia, Andrea Orlando) e loro familiari a prendere rumorosamente le distanze dall’esperienza di quello che nel Libro dell’incontro, riferendosi al proprio esperimento, viene chiamato “il Gruppo”, con una poco rasserenante lettera maiuscola.