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L’autonomia scolastica è uno di quei temi poco conosciuti anche dagli addetti ai lavori. Ecco perché il testo curato da Marco Campione ed Emanuele Contu, Liberare la scuola. Vent’anni di scuole autonome (Il Mulino, 2020, €28) giunge a fagiuolo.
Diciamo subito che l’autonomia scolastica è quel principio che offre alcuni poteri di gestione, didattica e amministrazione a ogni singolo istituto scolastico italiano, poteri che prima erano nelle mani dei funzionari ministeriali del MIUR.
Il libro si fregia di una introduzione di Luigi Berlinguer, ossia di colui che fu ministro del MIUR dal maggio 1996 all’aprile 2000, durante il primo governo Prodi e i due governi D’Alema. Proprio l’introduzione dell’ex ministro trasuda polemica e una non celata amarezza, poiché di fatto l’autonomia scolastica, che esiste da 20 anni, ancora oggi non è una legge applicata come si dovrebbe.
Una collettanea di esperti di politiche scolastiche
La collettanea brilla per la qualità degli interventi e per il peso specifico dei nomi che i due curatori sono riusciti a coinvolgere. Dopo l’introduzione di Berlinguer, difatti, c’è un seminale intervento di Franco Bassanini. Il capitolo tratta dell’autonomia scolastica inserita nelle riforme di fine millennio e definisce l’autonomia come “uno degli elementi del più radicale e ambizioso progetto di riforma del nostro sistema amministrativo” (21). Bassanini dà anche una lezione di Storia, sostenendo che “la teoria dello Stato liberale dominante nell’Ottocento, aveva infatti radici culturali fortemente individualistiche e insieme fortemente statalistiche” in cui le autonomie territoriali erano viste come un’anomalia.
La allora nascente cultura marxista, sostiene Bassanini, “trovò importanti convergenze con la cultura liberale sul terreno del ruolo dei corpi intermedi: al rapporto dominante tra Stato e individui, aggiunse il ruolo dei partiti politici e dei sindacati” (23). Questa doppia impostazione centralista e statalista “trovò molti sostenitori durante i lavori dell’Assemblea costituente” e fu solo in parte mitigato da un gruppo di costituenti che Bassanini non cita, ma che noi possiamo individuare nei socialisti-liberali, negli azionisti, nei repubblicani.
Le grandi trasformazioni degli ultimi 20 anni, secondo Bassanini, “rendono sempre più anacronistiche e indifendibili le resistenze della vecchia cultura statalista e centralista” (33). Trasformazioni che vanno dalla competizione globale alla rivoluzione digitale, che smantellano l’impianto gerarchico impostato dai “partiti-chiesa” e dai “partiti-caserma”. Quindi, per Bassanini, l’autonomia scolastica è anzitutto il rilancio anche politico delle comunità intermedie e delle autonomie territoriali e funzionali (37).
L’autonomia prima dell’autonomia
Il secondo intervento è a firma di Giovanni Cominelli e Luisa Ribolzi e tratta de “L’autonomia prima dell’autonomia” fornendo un breve quadro storico che fa risalire il progetto a quando al ministero dell’Istruzione sedeva Sergio Mattarella (1990) con la Legge 537/1993. L’excursus storico risale poi alle riforme successive al 1968, con l’alleggerimento dell’esame di Maturità da parte del ministro Ferrari Aggradi (1969) e la riforma dei decreti delegati (L 477/1973) di riordino degli Organi collegiali della scuola tentando di coinvolgere e regolamentare rappresentanze di genitori e studenti; tentò perché dopo un iniziale entusiasmo, l’affluenza alle urne degli organi collegiali collassò su percentuali risibili.
La cultura della sussidiarietà, che è alla base del progetto dell’autonomia scolastica, per Cominelli e Ribolzi ha cozzato contro “l’opposizione degli insegnanti che sono soddisfatti del loro ruolo di dipendenti/esecutori dello Stato, con la riluttanza dei dirigenti ad assumersi troppe responsabilità” (50) e le vicende dell’ultimo tentativo di riforma, la legge 107/2015 sarebbero per i due ricercatori “emblematiche al riguardo: tutte le timide innovazioni previste in direzione dell’autonomia sono state sterilizzate dalla decretazione e dagli accordi sindacali e svuotate da ogni contenuto dal successivo governo” (50).
Bertagna: pubblico non è uguale a statale
Notevolissimo anche il contributo di Giuseppe Bertagna “Le due gambe del pluralismo: autonomia e libertà di scelta educativa” che stigmatizza l’associazione “pubblico uguale statale” sottolineando come questo concetto nasca dall’Ottocento liberale da parte di quei laici desiderosi di sottrarre al controllo della Chiesa e dei gesuiti l’organizzazione della Scuola. Questo però ha portato a far accettare anche a personaggi insospettabili l’idea che una “scuola di Stato” fosse un principio positivo, naturalmente fatta propria dal ministro fascista Gentile che fece coincidere “Stato, persona e società” (55). Bertagna invece evidenzia come il concetto positivo sia quello di “pubblico” che però non significa necessariamente “statale”.
L’autore cita il mio relatore di laurea, il compianto Pietro Scoppola, che nel 1985 scriveva “lo Stato gestendo in condizione di monopolio le risorse pubbliche per l’istruzione, è condannato fatalmente a offrire un cattivo servizio, sottratto alla fine ad ogni criterio di efficienza e funzionalità e dominato invece dalle logiche sindacali e corporative di coloro che operano nella scuola” (59). Commenta amaro Bertagna, e non potrei essere più in sintonia, come docente: “Una scuola per gli insegnanti invece che per le giovani generazioni” (59).
L’obiettivo di Bertagna è dunque quello di “trasformare […] le scuole statali in scuole pubbliche“ (63) in modo da ingenerare una “competizione virtuosa tra scuole pubbliche statali e non statali in termini di rapporto tra costo studente e qualità offerta, percepita e valutata dei servizi e degli apprendimenti” (63) con uno Stato che controlli e perequi, ma non gestisca in regime di monopolio. Anche qui, difficile dirlo meglio.
Contu: un’autonomia imbrigliata dalla burocrazia
Il breve ma succoso intervento di Emanuele Contu (67-79) sottolinea come l’autonomia scolastica sia stata imbrigliata e incatenata da una burocrazia ministeriale non felice di dover cedere poteri alle periferie. Si è arrivati a questo anche a causa della “progressiva sparizione dai quadri ministeriali della dirigenza tecnica, cui spettano compiti specifici di supporto dell’autonomia delle scuole” (73) e vengono citate delle dure statistiche a riguardo. Questo aspetto secondo Contu si salda “con un altro tratto caratteristico della dirigenza pubblica italiana” immutato in tanti decenni: “una scarsa propensione all’innovazione, legata all’età media avanzata e alla provenienza geografica dei dirigenti pubblici, in prevalenza di estrazione meridionale o romana [Cassese 1981; Cassese e Mari 2001]”
Bono: la super-fetazione normativa sulla scuola
Sabrina Bono mette ordine in 50 anni di super-fetazione normativa riguardo alla Scuola italiana. Riforme e controriforme, e per carità di patria l’autrice inizia solo dalla Legge 15 marzo 1997, n° 59, “Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa”, più nota come “Legge Bassanini”, che “è stata definita […] il massimo di ‘federalismo possibile’ a Costituzione invariata” (87) con la quale la Scuola diventa un’istituzione e una comunità, con piena applicazione dell’art. 21 c.1 della Legge.
Bono ricorda come la successiva Legge 107/205 abbia tentato di dare applicazione e potenziare i principi enunciati dalla Legge Bassanini passando da una “enunciazione di principio, rimasta spesso sulla carta per mancanza di risorse e di un input politico esplicito, all’esercizio concreto di spazi progettuali e operativi finalizzati a una serie di obiettivi” (95).
Sheila Bombardi e Daniele Checchi firmano un breve contributo intitolato “Valutazione e miglioramento”, in cui si parla soprattutto della valutazione dell’operato dei presidi o meglio della necessità di una valutazione: “stupisce l’assenza di forme di riscontro negativo sull’operato di dirigenti scolastici che non dimostrano di attivarsi a fronte di risultati incerti o negativi” (102) e ricordano che in altri paesi la classificazione di “scuola di insuccesso” (Failing School) “produce normalmente interventi drastici”.
Giannelli: i nuovi poteri del preside
Sullo stesso tenore, Antonello Giannelli firma un interessantissimo contributo intitolato “Il preside diventa dirigente“, che ricorda il quadro legislativo che ha trasformato responsabilità e poteri del DS e sottolinea la delicatezza della nomina da parte del preside dei suoi collaboratori, che sono dei veri e propri delegati. Giannelli indica che la via è però la creazione di un middle managment (un personale intermedio tra la dirigenza e il personale) che possa coadiuvare la preside nei suoi compiti.
Mario Maviglia denuncia nel suo capitolo sul mancato superamento dei Decreti delegati che “la classe politica […] non dimostri alcuna reale volontà di sostenere il processo di autonomia delle scuole, né tantomeno tale interesse è riscontrabile nel ministero che ne clorso di questi anni ha accentuato ancor più, se possibile, le scelte decisionali scaricando sulle scuole mere incombenze burocratiche” (131).
Il sociologo Luciano Benedusi, in “Educare per competenze e autonomia scolastica” si sofferma sulla necessità di introdurre quelle che chiama “competenze per la qualità della vita”, richiamandosi alle “capacitazioni” di Sen e Nussbaum e al pragmatismo di Dewey che sostiene si apprenda attraverso l’esperienza e l’azione. Benadusi cita anche Perrenoud (2010) per il quale competenza significa “saper usare la conoscenza anche fuori dal luogo dove essa è stata acquisita” (138) e suggerisce di sdoppiare il voto di condotta introducendo anche un voto o giudizio “sui comportamenti collaborativi” degli studenti.
Leoni e Marinelli: analisi della ‘Buona Scuola’
Loredana Leoni e Angelo Marinelli propongono una disamina della Legge 107/2015 meglio nota come “Buona scuola” e ne criticano diversi aspetti a cominciare dal (brutto) nome. Altri aspetti sono invece elogiati, come quello della chiamata per competenze definita come la procedura che aveva positivamente messo in discussione il “sacro principio del punteggio e dell’anzianità, mito intoccabile della scuola italiana” (170).
La improvvida decisione del ministro Bussetti (Lega, governo Conte 1) ha così smontato quel provvedimento, e secondo gli autori quella decisione è derivata dalla “consonanza di fondo tra i conservatorismi delle vecchie burocrazie ministeriali e delle dirigenze sindacali incapaci di alzare la testa e guardare lontano” che da anni governa la scuola italiana. (171). La Legge 107 è comunque valutata come una riforma che non ha avuto il coraggio di andare fino in fondo e che avrebbe dovuto essere accompagnata da leggi, regolamenti e contratti e cambi di modi di pensare e di concepire. In sostanza, un’occasione largamente persa.
Acerra: cercansi ispettori del ministero disperatamente
Ettore Acerra firma un capitolo che s’intitola “Sostenere le scuole autonome: la funzione ispettiva” in cui si denuncia come i vari governi hanno sistematicamente mortificato detta funzione non sostituendo il personale andato in pensione, al punto che oggi si ha una riduzione del 56% del personale ispettivo del ministero, rendendo di fatto le scuole e i presidi non controllabili dal Miur. Acerra sostiene che per il buon funzionamento dell’autonomia serve invece un “corpo ispettivo autorevole, autonomo e indipendente” (237).
Max Bruschi e Salvatore Milazzo sostengono in “Riformare il Testo Unico” che occorra mettere ordine e razionalizzare la Babilonia di provvedimenti legislativi sulla scuola approntando un nuovo Testo Unico. Questo si dovrebbe fare attraverso una Law Commission che operasse una semplificazione radicale.
Piras: l’importanza della formazione e della selezione dei docenti
Mauro Piras firma un importantissimo contributo intitolato “Non i migliori ma i più adeguati: formare e scegliere i docenti” che parte dall’assunto che la qualità dei docenti sia alla base di ogni scuola di successo e che quindi la loro selezione debba essere il frutto di processo selettivo e razionale. “La scelta per l’insegnamento”, scrive Piras, “deve essere una scelta professionale consapevole, non una seconda scelta” (252).
Dopo un quadro dei vari cambiamenti che si sono affastellati nelle modalità di selezione e formazione del personale docente, Piras propone una sua soluzione: “laurea triennale disciplinare, laurea magistrale ancora disciplinare ma già curvata in senso didattico-pedagogico, seguita da un ulteriore anno di formazione e tirocinio che porta al titolo abilitante. Dopo l’abilitazione, il concorso” (255). Infine, l’autore insiste per il ritorno alla chiamata per competenze perché, sostiene, “il lavoro del docente è tale che il modo migliore per selezionarlo è il colloquio” e non potremmo essere più in accordo.
Marco Campione e Franco De Anna si concentrano sul valorizzare le professionalità dei docenti attraverso l’introduzione delle carriere. Dopo una analisi comparativa sullo stato degli stipendi dei docenti a livello europeo, in cui secondo gli autori quel che manca è la progressione dello stipendio, si spinge per l’abbandono della graduatoria e la contrattazione nazionale, in virtù del fatto che “i docenti non sono tutti uguali” quanto a competenze, storie personali, attitudini e capacità.
Campione e Contu: gli studenti come protagonisti del proprio apprendimento
Le conclusioni del volume sono a opera dei due curatori, Marco Campione ed Emanuele Contu. I due autori sostengono che si debba pensare a una scuola nella quale “gli studenti non sono ricettori passivi di un sapere che il docente cala dall’alto, ma protagosnisti attivi del proprio apprendimento”. Per cui “non è il discente che si deve adattare al sistema scuola, bensì la scuola a farsi capace di inclusione aprendosi alla ricchezza delle diversità” (327).
I curatori spingono dunque per una piena realizzazione dell’autonomia, magari attraverso un Testo Unico “redatto con sobrietà e parsimonia” e che includa la visione di un ministero al servizio degli studenti e delle scuole e che non accentri poteri. Il tutto, visto all’interno di una cornica di sussidiarietà che funga anche come un antidoto al sovranismo che si affaccia in tutta Europa.
Nel complesso, siamo qui dinanzi a un volume per addetti ai lavori ed esperti di politiche pubbliche sulla scuola, che non pare, purtroppo, preoccuparsi di parlare ai docenti ed entro certi limiti nemmeno alla massa dei presidi. Le riflessioni degli autori sono però tutte ficcanti, puntuali, necessarie. Peccano forse un eccessivo tecnicismo e un dare per scontata la conoscenza del micro-funzionamento della macchina burocratico-amministrativa sia a livello governativo che ministeriale. Se però si ha la pazienza di studiare i riferimenti e di usare le note a pie’ di pagina, è possibile connettersi con i ragionamenti compiuti e apprezzarne in modo pieno la logica e il percorso.
*Questa recensione era stata pubblicata il 15 luglio 2020 sul mio blog su l’Espresso. Dal momento che l’Espresso ha pensato bene di oscurare l’intero blog, lo ripubblico qui a beneficio di tutti gli interessati.