Il libro
Nel 1937, Francis Scott Fitzgerald è un uomo in crisi, minato dall’alcol, ormai lontano dai successi che, negli anni Venti, ne avevano fatto lo scrittore più promettente della sua generazione. La salute lo sta abbandonando, la moglie Zelda è ricoverata in una clinica per malattie mentali e la sua situazione finanziaria, ogni giorno più tragica, gli impone di tentare la sorte a Hollywood come sceneggiatore. Intervallato da flashback sospesi tra nostalgia e dolore, il romanzo segue Fitzgerald dal suo arrivo alla MGM all’innamoramento per la giornalista Sheilah Graham, al lavoro incessante per completare la sua ultima opera, L’amore dell’ultimo milionario, e dedica pagine commoventi al suo disperato tentativo di mantenere una sembianza di vita familiare con Zelda, ormai assente, e con la figlia Scottie.
Nelle pagine di O’Nan, la traiettoria letteraria di Fitzgerald e l’Età dell’oro di Hollywood prendono vita attraverso una straordinaria e credibile galleria di personaggi – da Dorothy Parker ed Ernest Hemingway a Humphrey Bogart e Irving Thalberg – ma soprattutto attraverso la voce, i pensieri, lo sguardo di un uomo complesso, diviso tra la passione e il rimpianto, il talento e lo spreco di sé.
La mia lettura
Cercare di immaginare e raccontare gli ultimi anni della vita di F.Scott Fitzgerald è sicuramente una gran tentazione per uno scrittore, Stewart O’Nan apre West of Sunset (questo è il titolo originale) con una citazione del romanzo incompiuto di Fitzgerald: L’amore dell’ultimo milionario:
Non esiste il secondo atto di una vita americana.
- Scott Fitzgerald
E subito dopo però continua con una seconda citazione
Niente era impossibile – era tutto appena cominciato.
- Scott Fitzgerald
Probabilmente a voler evidenziare quanto fosse incerto il futuro dello scrittore in quegli anni e non solo il suo, parliamo di tre anni difficili, quelli che vanno dal 1937 al 1940 quando l’America era attanagliata da un tasso di disoccupazione altissimo, Roosevelt era sotto scacco e pensare positivamente era molto difficile.
Eppure quella seconda citazione fa immaginare un Fitzgerald possibilista, un uomo che poteva ancora sperare in cambiamenti importanti.
Di là dal tramonto comincia con Fitzgerald in difficoltà economiche, costretto a lasciare Zelda nel sanatorio della Carolina del Nord per andare a lavorare suo malgrado a Hollywood, un enorme compromesso.
Eccolo Scott letteralmente seppellito in quello che allora era soprannominato “Iron lung”, polmone d’acciaio, il palazzo della MGM dove provava a scrivere sceneggiature poco interessanti che non avevano grosse speranze di riscuotere consensi.
“Era già stato a Los Angeles due volte, ciascuna nei panni di un uomo diverso. La prima volta era entrato in città trionfante, il ragazzo prodigio coperto d’oro con la sua sposa emancipata, aveva firmato autografi e posato con Zelda per i fotografi scendendo dal treno. L’ultima volta, dopo la Crisi, lei era a Montgomery, convalescente, e lui era scappato a Pasadena per evitare i giornalisti. Adesso, quando scese dalla banchina, non c’era nessuno ad accoglierlo. Raccolse le valigie, chiamò un taxi col braccio e sparì nel traffico.”
Fin dall’inizio si intuisce la tragicità di questa figura, aveva trascorso il tempo del viaggio lottando contro la voglia di bere e in tutto il libro quello che mi è rimasto fisso in mente è proprio questa lotta, questo resistere al desiderio di capitolare all’alcol perché di fatto lui non aveva le carte in regola per restare sobrio, come Zelda non aveva le carte in regola per essere considerata sana.
“Carissimo cuore, le scrisse, in accappatoio. Finalmente sono arrivato alla benedetta fine del continente, sto bene, mi sento riposato e pronto a dar battaglia a Goldwyn e a Mayer e a qualsiasi terza testa di Cerbero ci sia di guardia al cancello.”
Due vite sull’orlo di un precipizio, una Hollywood che rispecchia appieno la precarietà dei tempi con una sfilata di “stelle” che appaiono consumate dalla loro stessa luce.
“[…] bevve un gin doppio. Ricordava di averne ordinato un altro, e poi niente fino ad Albuquerque. Era sdraiato sul prato umido di qualcuno, con un irrigatore che spruzzava archi d’acqua sopra di lui.”
I continui blackout rendono perfettamente l’idea dello stato psicofisico dello scrittore, il de profundis in cui doveva trovarsi, l’obiettivo di O’Nan è sicuramente lasciarci disorientati, farci cadere nelle trappole emotive del fragile Scott e ci riesce benissimo perché per tutto il libro non facciamo altro che avvicinarci, capitolo dopo capitolo ad una fine annunciata.
Hollywood è stata la vera fine di Fitzgerald ma anche uno stimolo a cercare una salvezza ricominciando a scrivere il suo ultimo romanzo, la lotta per la sopravvivenza è testimoniata sia dalla volontà di scrivere ancora un grande romanzo sia dagli sprazzi di fiducia nel futuro che gli fanno appunto dire: Niente era impossibile – era tutto appena cominciato.
“Una scarica elettrica gli percorse il braccio e i denti si serrarono. Sentì scoppiare una bolla nella spalla, poi un formicolio pungente al collo; la marea si alzò dentro di lui, mozzandogli il respiro.
Stahr era lì di fianco a lui come uno spirito benevolo: il suo aereo era destinato a schiantarsi, con la sua ragazza là fuori da qualche parte in una città fatta di spazi sterminati. Scott provò a respirare ma la gola era chiusa e riuscì solo a tossire. Perse la presa sulla mensola e si sentì cadere, dimenandosi alla cieca, e prima che l’oscurità lo inghiottisse protestò con un ultimo disperato pensiero: Ma io non ho ancora finito.”
In questo momento così tragico condividere la sorte con il protagonista del romanzo incompiuto l’ho trovato particolarmente struggente.
Ha fatto bene O’Nan a cedere a questo desiderio di provare a raccontare i vaneggiamenti di una notte ubriaca, a voler svelare la rappresentazione di una soggettività dalle mille sfumature, a spiegare quanto può essere bello anche un pensiero triste.
Di là dal tramonto di Stewart O’Nan
Traduzione di Dante Impieri
Minimum Fax
Pg 396 € 18,00