Un trilione e mezzo di dollari. Poche ore dopo il discorso di Obama sullo Stato dell’Unione sono arrivate le previsioni dell’Ufficio del Bilancio del Congresso a riaccendere i toni della polemica a Washington. Se il deficit di bilancio nell’anno fiscale che si è chiuso a settembre ammontava a 1,3 trilioni, quello previsto per il 2011 tocca 1,5 trilioni di dollari, il 9,8% del Pil. L’Ufficio del Congresso non fa sconti e nella sua relazione fa notare che, dopo il 1945, si tratta del secondo deficit più alto della storia americana, dopo quello del 2009 (che era al 10%).
Di fronte a queste statistiche, per i repubblicani è facile dare fuoco alle polveri e sottolineare che questi numeri record sono il risultato della politica keynesiana di Obama. Il presidente ha usato a larghe mani la leva della spesa pubblica per far ripartire – invano – l’economia. Così, il giorno dopo il discorso che doveva riunificare il Congresso e dare avvio alla lunga campagna elettorale che porterà alle presidenziali del 2012, i fronti in campo si sono ricomposti sulle tradizionali trincee ideologiche. Martedì sera Obama aveva cercato di rilanciare la propria immagine e la politica della Casa Bianca con un discorso ispirato, moderato e innovativo: aveva promesso di congelare la spesa pubblica, ma anche di rilanciare la competitività del paese finanziando le grandi infrastrutture, la ricerca, l’istruzione. Aveva definito questa fase della politica americana “il momento dello Sputnik” dell’attuale generazione, ricordando come negli anni Sessanta il paese abbia saputo reagire all’egemonia sovietica nella corsa allo spazio. Solo così, aveva detto, si creeranno crescita e posti di lavoro.
Ma i repubblicani, nonostante alcuni apprezzamenti per i toni concilianti usati da Obama, hanno subito scelto la linea dura. Il successo dei Tea Party ha reso ancora più affilata la loro lama sui temi dell’economia. Alle proposte di Obama i conservatori rispondono che per far crescere il paese ci vogliono più imprenditori, più rischio individuale, uno stato più leggero, meno spese in sanità. Daniel Henninger, voce di spicco nella pagina dei commenti del Wall Street Journal, irride Obama per la sua insistenza a voler investire nelle energie pulite e in una rete di treni veloci. Henninger è un abile ideatore di metafore e fornisce spesso idee e slogan alla destra Americana. Così sulla rete si diffondono le voci di chi si chiede se il futuro dell’America davvero sia nei treni e nei mulini a vento, due tecnologie del passato. Sono decine gli interventi critici verso la politica keynesiana di Obama e un deficit che sfiora il 10 per cento per il terzo anno consecutivo è una zavorra pesante ai piedi del presidente.
Sul fronte opposto, in campo democratico, emergono critiche allo scarso coraggio dimostrato dal presidente. È ancora una volta Robert Reich, ex ministro del Lavoro di Bill Clinton, con la sua consueta lucidità, a sintetizzare l’insoddisfazione dell’ala liberal del partito nei confronti di Obama. In un articolo sul Financial Times, Reich ripete un tema a lui caro, quello della subalternità dei democratici, e di Obama in particolare, alla cultura dei conservatori. Reich sostiene che nel suo discorso – e nei primi due anni di presidenza – Obama non ha colto l’elemento chiave della crisi: il problema dell’economia americana non è la mancanza di competitività: le grandi corporation americane sono competitive come non lo sono mai state e vantano profitti record. Ma questi vengono investiti all’estero. Rispetto a 30 anni fa l’economia è più che raddoppiata, ma i profitti di questa crescita sono andati in misura crescente ai più ricchi. Per rilanciare l’economia Usa ci vorrebbero più consumi, dovrebbe ripartire il mercato immobiliare, ma questo non è possibile perché la classe media ha pochi soldi in tasca. Se i ricchi diventano sempre più ricchi e la classe media si impoverisce, il mercato interno diventa più fragile, gli investimenti e i posti di lavoro vanno all’estero.
Quelli di Reich sono argomenti che convincono l’ala liberal del partito democratico, ma non devieranno di un millimetro la corsa al centro di Obama, che non può più permettersi di logorarsi in una difficile battaglia culturale sul tema delle diseguaglianze sociali crescenti. Il presidente deve dialogare con i repubblicani che hanno la maggioranza alla Camera e convincere una classe media moderata che ha ormai incorporato la diffidenza verso lo stato nella propria cultura. Così la seconda campagna presidenziale di Obama prende avvio ancora una volta sul campo scelto dai repubblicani. Nell’era della grande crisi è difficile vincere una battaglia culturale sui temi dell’ineguaglianza. Il vecchio mantra reaganiano – il governo è il problema, non la soluzione – risuona ancora nella cultura profonda nel paese. E con un deficit al 9,8 per cento Obama ha poche scelte.