Quella che segue è una storia italiana, che nasce il 21 gennaio scorso e che ancora non è finita. Il 21 gennaio mattina, la rete delle biblioteche italiane riceve un messaggio dal Centro elaborazione dati dell’Istituto centrale per il Catalogo unico delle biblioteche italiane (CED-ICCU) (4498 biblioteche collegate in rete divise in 71 poli locali, un sistema che gestisce 9 milioni di dati bibliografici con un incremento giornaliero di circa 4000 dati). Il sistema avverte che «l’Indice è interrotto poiché si è verificato un guasto hardware presso il CED dell’Indice che rende il sistema inaccessibile». Cioè, non è possibile aggiornare il catalogo unico con i nuovi arrivi nelle singole biblioteche. Precisava, inoltre, che al Centro erano «in attesa di avere qualche aggiornamento sui tempi di ripristino del sistema».
Il messaggio è generico. Si sa solo che c’è un pezzo in avaria e si prevede che «il servizio possa eventualmente riprendere nel corso del pomeriggio di lunedì (24 gennaio), ammesso che non si presentino altri inconvenienti». Martedì 25 qualche solerte e premuroso funzionario avverte che il guaio è più complicato e informa tutta la rete delle biblioteche nazionali che: 1) il componente di rete atteso è stato reperito all’estero (in Belgio) per l’indisponibilità su mercati più vicini; 2) che arriverà in Italia non prima del 26 gennaio e 3) che si potrà avere qualche notizia in merito al riavvio dell’Indice solo giovedì 27 gennaio. Ma il 27 gennaio non accade niente. La sera di martedì 1° febbraio un comunicato avverte dell’improbabilità che il sistema riprenda prima di lunedì 7 febbraio. Stando dunque ai numeri medi, potremmo trovarci di fronte a oltre 60mila dati non inseriti, da recuperare una volta che il sistema ripartirà.
La digitalizzazione della cultura italiana è da anni un proclama della nostra politica. L’apertura del catalogo online risale all’aprile del 2000. L’allora ministro dei Beni culturali Giovanna Melandri la celebrò con queste parole, gonfie dell’enfasi di un nuovo millennio appena inaugurato: «Abbiamo dimostrato il ruolo dello Stato nell’era digitale. Il regolatore pubblico ha garantito un servizio che farà sì che i guardiani dell’accesso al cyberspazio non siano tra qualche anno solo i soggetti dell’intermediazione economica». Ma quando nel 2009 l’Unione europea ha fatto appello a tutti i Paesi membri «di procedere con rapidità alla digitalizzazione delle intere opere, per raggiungere l’obiettivo di 6 milioni di titoli entro il 2010», l’Italia aveva provveduto alla scansione di solo l’1,2% del suo patrimonio. A dicembre 2009 anche il ministro Bondi (assieme al direttore generale per la valorizzazione del patrimonio culturale Mario Resca), pubblicizzando l’accordo con Google per la digitalizzazione di un milione di libri, spese parole gonfie d’enfasi per il futuro multimediale delle nostre Biblioteche. Ironia della sorte, in quell’accordo si faceva anche il punto sulla riproduzione in Google Street View di Pompei e la Casa dei Gladiatori non era ancora crollata.
Ma tornando al blackout di questi giorni, vorrei proporre tre considerazioni. Questa notizia non è comparsa da nessuna parte sui giornali. Forse se questo coma informatico avesse riguardato l’elaboratore di EasyJet la notizia non solo ci sarebbe stata, ma anche, presumibilmente, avrebbe fatto discutere. Almeno in merito al danno subìto. Pensare che il guaio sia solo tecnico significa avere uno sguardo contabilistico, miope, e soprattutto non attento alla trasformazione del mondo del lavoro. Una parte strutturale del servizio delle biblioteche sempre più è fornito non da addetti interni – ovvero da impiegati garantiti perché assunti a tempo indeterminato – ma da cooperative di servizio. Significa che un blocco prolungato del sistema di catalogazione e di immissione dati implica una quantità di partite Iva che non lavorano e dunque non guadagnano (da cui si deduce che con la cultura si mangia – meglio si è mangiato, magari a stento, ma si è mangiato fino a due settimane fa – a differenza di ciò che ritiene il nostro ministro dell’Economia). Rendere il lavoro flessibile funziona se almeno si è messi in condizione di tirare su una paga per il lesso. Non è il nostro caso.
Il disastro tecnologico del nostro Paese rappresenta un handicap concreto e, soprattutto, misurabile. È una storia istruttiva. Non ci dice infatti del nostro possibile destino domani e se ci salverà il federalismo. Ci dice del nostro oggi e in quale zona della classifica rispetto alla modernità siamo collocati. In basso.